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Dal "Piccolo Principe"

Post n°16 pubblicato il 11 Marzo 2006 da lavocedeiventi

Al piccolo principe bastava sapere che c’era la rosa. Delicata, molto delicata e malgrado ciò completamente affidata alle sensazioni del bambino. E’ lui che la innaffiava, è lui che la difendeva dal vento e dalle grinfie degli animali. Era una rosa esigente. Qualche volta il piccolo principe avrebbe voluto dimenticarla, ma in quel momento si rammentava di essere tutto per la rosa e se ne occupava di nuovo. Era a causa della sua bellezza che alla rosa tanto era dovuto e anche perchè il Piccolo Principe ne era responsabile.

Era questo che la rendeva così importante.

 

“Da migliaia di anni i fiori fabbricano le spine. Da migliaia di anni le pecore mangiano tuttavia i fiori.

E non è una cosa seria cercare di capire perchè i fiori si danno tanto da fare per fabbricarsi delle spine che non servono a niente? Non è importante la guerra tra le pecore e fiori? Non è più serio e più importante delle addizioni di un grosso signore rosso? E se io conosco un fiore unico al mondo, che non esiste da nessuna parte, altro che nel mio pianeta, e che una piccola pecora può distruggere di colpo, così un mattino, senza rendersi conto di quello che fa, non è importante questo!”

Arrossì, poi riprese:

“Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda.

E lui si dice: “il mio fiore è là in qualche luogo”.

Ma se la pecora mangia il fiore, è come se per lui tutto a un tratto, tutte le stelle si spegnessero! E non è importante questo!”

Non potè proseguire. Scoppiò bruscamente in singhiozzi. Era caduta la notte. Avevo abbandonato i miei utensili. Me ne infischiavo del mio martello, del mio bullone, della sete e della morte. Su di una stella, un pianeta, il mio, la Terra, c’era un piccolo principe da consolare! Lo presi in braccio. Lo cullai. Gli dicevo: “Il fiore che tu ami non è in pericolo...disegnerò una museruola per la tua pecora...e una corazza per il tuo fiore...io...”

Non sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo...il paese delle lacrime è così misterioso.

 

Imparai ben presto a conoscere meglio questo fiore. C’erano sempre stati sul pianeta del piccolo principe dei fiori molto semplici, ornati di una sola raggiera di petali, che non tenevano posto e non disturbavano nessuno. Apparivano un mattino nell’erba e si spegnevano la sera. Ma questo era spuntato un giorno, da un seme venuto chissà da dove, e il piccolo principe aveva sorvegliato da vicino questo ramoscello. Poteva essere una nuova specie di baobab. Ma l’arbusto cessò presto di crescere e cominciò a preparare un fiore. Il piccolo principe che assisteva alla formazione di un bocciolo enorme, sentiva che ne sarebbe uscita un’apparizione miracolosa, ma il fiore non smetteva più di prepararsi ad essere bello, al riparo della sua camera verde. Sceglieva con cura i suoi colori, si vestiva lentamente, aggiustava i suoi petali ad uno a d uno. Non voleva uscire sgualcito come un papavero, non voleva apparire che nel pieno splendore della sua bellezza. Eh, si, c’era una gran civetteria in tutto questo! La sua misteriosa toeletta era durata giorni e giorni. E poi, ecco che un mattino, proprio all’ora del levar del sole, si era mostrato.

E lui, che aveva lavorato con tanta precisione, disse sbadigliando:

“Ah! Mi sveglio ora. Ti chiedo scusa...sono ancora tutto spettinato...”

il piccolo principe allora non potè frenare la sua ammirazione:
”Come sei bello!”

“Vero”, rispose dolcemente il fiore, “e sono nato insieme al sole...”

il piccolo principe indovinò che non era molto modesto, ma era così commovente!

“Credo che sia l’ora del caffè e latte”, aveva soggiunto, “vorresti pensare a me...”

E il piccolo principe, tutto confuso, andò a cercare un innaffiatoio di acqua fresca e servì al fiore la colazione.

Così l’aveva ben presto tormentato con la sua vanità un poco ombrosa. Per esempio, un giorno, parlando delle sue quattro spine, gli aveva detto:

“Possono venire le tigri, con i loro artigli!”

“Non ci sono tigri sul mio pianeta”, aveva obiettato il piccolo principe, “e poi le tigri non mangiano l’erba”.

“Io non sono un’erba”, aveva dolcemente risposto il fiore.

“Scusami...”

“Non ho paura delle tigri, ma ho orrore delle correnti d’aria...non avresti per caso un paravento?”

“Orrore delle correnti d’aria?”

“E’ un pò grave per una piante”, aveva osservato il piccolo principe. “E’ molto complicato questo fiore..” “alla sera mi metterai al riparo sotto a una campana di vetro. Fa molto freddo qui da te... Non è una sistemazione che mi soddisfi. Da dove vengo io...”

Ma si era interrotto. Era venuto sotto forma di seme. Non poteva conoscere nulla degli altri mondi. Umiliato di essersi lasciato sorprendere a dire una bugia così ingenua, aveva tossito due o tre volte, per mettere il piccolo principe dalla parte del torto...

“E questo paravento?...”

“Andavo a cercarlo, ma tu mi parlavi!”

Allora aveva forzato la sua tosse per fargli venire dei rimorsi. Così il piccolo principe, nonostante tutta la buona volontà del suo amore, aveva cominciato a dubitare di lui. Aveva preso sul serio delle parole senza importanza che l’avevano reso infelice.

“Avrei dovuto non ascoltarlo”, mi confidò un giorno, “non bisogna mai ascoltare i fiori. Basta guardarli e respirarli. Il mio, profumava il mio pianeta, ma non sapevo rallegrarmene. Quella storia degli artigli, che mi aveva tanto raggelato, avrebbe dovuto intenerirmi”.

E mi confidò ancora:

“Non ho saputo capire niente allora! Avrei dovuto giudicarlo dagli atti, non dalle parole: mi profumava e mi illuminava. Non avrei mai dovuto venirmene via! Avrei dovuto indovinare la sua tenerezza dietro le piccole astuzie. I fiori sono così contraddittori! Ma ero troppo giovane per saperlo amare”.

 

[...] Il piccolo principe strappò anche con una certa malinconia gli ultimi germogli di baobab. Credeva di non ritornare più. Ma tutti quei lavori consueti gli sembravano, quel mattino, estremamente dolci. E quando innaffiò per l’ultima volta il suo fiore, e si preparò a metterlo al riparo sotto la campana di vetro, scoprì che aveva una gran voglia di piangere.

“Addio”, disse al fiore.

Ma il fiore non rispose.

“Addio”, ripetè.

Il fiore tossì. Ma non era perchè fosse raffreddato.

“Sono stato uno sciocco”, disse finalmente, “scusami, e cerca di essere felice”.

Fu sorpreso dalla mancanza di rimproveri. Ne rimase sconcertato, con la campana di vetro per aria. Non capiva quella calma dolcezza.

“Ma si, ti voglio bene”, disse il fiore, “e tu non l’hai saputo per colpa mia. Questo non ha importanza, ma sei stato sciocco quanto me. Cerca di essere felice. Lascia questa campana di vetro, non la voglio più”.

“Ma il vento...”

“Non sono così raffreddato. L’aria fresca della notte mi farà bene. Sono un fiore”.

“Ma le bestie....”

“Devo pur sopportare qualche bruco se voglio conoscere le farfalle, sembra che siano così belle. Se no chi verrà a farmi visita? Tu sarai lontano e delle grosse non ho paura. Ho i miei artigli..”.

E mostrava ingenuamente le sue quattro spine. Poi continuò:

“Non indugiare così, è irritante. Hai deciso di partire e allora vattene”.

Perchè non voleva che io lo vedessi piangere. Era un fiore così orgoglioso...

 

[...] Ma capitò che il piccolo principe avendo camminato a lungo attraverso le sabbie, le rocce e le nevi, scoperse alla fine una strada. E tutte le strade portavano verso gli uomini.

“Buon giorno”, disse.

Era un giardino fiorito di rose.

“Buon giorno”, dissero le rose.

Il piccolo principe le guardò.

Assomigliavano tutte al suo fiore.

“Chie siete?” domandò loro stupefatto il piccolo principe.

“Siamo delle rose”, dissero le rose.

“Ah!” fece il piccolo principe.

E si sentì molto infelice. Il suo fiore gli aveva raccontato che era il solo della sua specie in tutto l’universo. Ed ecco che ce n’erano cinquemila, tutte simili, in un solo giardino.

“Sarebbe molto contrariato”, si disse, “se vedesse questo...farebbe del gran tossire e fingerebbe di morire per sfuggire al ridicolo. Ed io dovrei far mostra di curarlo, perchè se no, per umiliarmi, si lascerebbe veramente morire...”

E si disse ancora: “Mi credevo ricco di un fiore unico al mondo, e non possiedo che una qualsiasi rosa. Lei e i miei tre vulcani che mi arrivano alle ginocchia, e di cui l’uno, forse, è spento per sempre, non fanno di me un principe molto importante...”

E, seduto nell’erba, piangeva.

In quel momento apparve la volpe.

“Buon giorno”, disse la volpe.

“Buon giorno”, rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.

“Sono qui”, disse la voce, “sotto il melo...”

“Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino...”

“Sono una volpe”, disse la volpe.

“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, “sono così triste...”

“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomesticata”.

“Ah! Scusa”, fece il piccolo principe.

Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: “Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?”

“Non sei di queste parti, tu”, disse la volpe, “che cosa cerchi?”

“Cerco gli uomini”, disse il piccolo principe. “Che cosa vuol dire addomesticare?” “Gli uomini”, disse la volpe, “hanno dei fucili e cacciano. E’ molto noioso! Allevano anche delle galline. E’ il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?”

“No”, disse il piccolo principe. “Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?” “E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami...”

“Creare dei legami?”

“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.

“Comincio a capire”, disse il piccolo principe. “C’è un fiore...credo che mi abbia addomesticato...”

“E’ possibile”, disse la volpe. “Capita di tutto sulla Terra...”

“Oh! Non è sulla Terra”, disse il piccolo principe.

La volpe sembrò perplessa:

“Su un altro pianeta?”

“Si”.

“Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?” “No”. “Questo m’interessa! E delle galline?” “No”. “Non c’è niente di perfetto”, sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea:

“La mia vita è monotona. Io dò la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. Questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...”

La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
”Per favore...addomesticami”, disse.

“Volentieri”, rispose il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”.

“Non si conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe. “Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”

“Che bisogna fare?” domandò il piccolo principe.

“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. [....]

Così il piccolo principe addomesticò la volpe.

E quando l’ora della partenza fu vicina:

“A!”, disse la volpe, “...piangerò”.

“La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi...”

“E’ vero”, disse la volpe.

“Ma piangerai!” disse il piccolo principe ”E’ certo”, disse la volpe. “Ma allora che ci guadagni?” “Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.

Poi soggiunse:

“Và a rivedere le rose. Capirai che le tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto”.

Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.

“Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente”, disse. “Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Me ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo”.

E le rose erano a disagio.

“Voi siete belle, ma siete vuote”, disse ancora. “Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perchè è lei che ho innaffiata. Perchè è lei che ho messa sotto la campana di vetro. Perchè è lei che ho riparata col paravento. Perchè su di lei ho ucciso i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perchè è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perchè lei è la mia rosa”.

E ritornò dalla volpe. “Addio”, disse. “Addio”, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”.

“L’essenziale è invisibile agli occhi”, ripetè il piccolo principe, per ricordarselo.

“E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”.

“E’ il temo che ho perduto per la mia rosa...”

sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.

“Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa...”

“Io sono responsabile della mia rosa...” ripetè il piccolo principe per ricordarselo.

 

 

 

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lottergs
lottergs il 24/03/09 alle 11:56 via WEB
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