La voce di Megaride

“NAPOLI CHE CANTA”


L'ULTIMO CANTO DI UNA SIRENAdi Antonio Mocciola
C’è una parola di cui troppo spesso si abusa, svilendone il significato e la portata emotiva. Questa parola è: miracolo. La musica alle volte è più potente della vita umana, e ha una forza superiore ed insondabile che va oltre il respiro, il battito, gli umori prettamente terreni. “Napoli che canta”, l’ultimo lavoro in vita di Giuni Russo, è un miracolo. Intanto perché le previsioni di vita della cantante palermitana, colpita da un tumore all’inizio del 2000, non le davano che pochi mesi. E poi perché il ritrovamento dell’omonimo film di Roberto Roberti Leone, padre del più noto Sergio, ha davvero qualcosa di magico. Confinato per decenni nei magazzini di uno studio americano, “Napoli che canta”, piccola perla muta ambientata nella Napoli del ventennio miserabile ed emigrante, uscì dall’oblio a cui l’aveva destinata la censura fascista, poco incline a tollerare immagini perdenti dell’Italia giovane e colonialista. Ma a quel film mancava la parola, anzi la Voce. E quando Paolo Cerchi Usai, direttore della George Eastman House, completò il restauro della pellicola, decise di affidare il commento musicale alla sua compatriota Giuni Russo, che con forza e volontà combatteva il suo male riuscendo ad inanellare, nel frattempo, una trionfale performance sanremese e rari, indimenticabili concerti nei luoghi più prestigiosi d’Italia. Era il 2003, per i medici Giuni sarebbe già dovuta essere Altrove. “Napoli che canta” omaggia
Napoli, la sua solarità, la sua penombra, i suoi capricci e la sua voluttuosa vitalità. Tra i tanti omaggi che artisti non napoletani hanno reso alla città del sole, questo è sicuramente uno dei più fulgidi per spessore artistico ed umano. Non solo per la dizione quasi perfetta, non solo per la vocalità insuperabile, e neanche per una certa “fratellanza sudista” che accomuna la cantante palermitana (ma di nonno partenopeo) a Napoli. E’ che in quest’opera c’è un’Anima; un’ Anima che aveva già preso contatto con l’Eterno, e che ha tradotto in musica un messaggio superiore. Chi ha un certo tipo di sensibilità non ha difficoltà a sintonizzarsi con queste sensazioni, ma anche chi non ce l’ha può trovare in queste 30 tracce, e nelle immagini del film, diversi motivi di soddisfazione. Intanto perché si tratta di una vera e propria “suite”, composta dalla stessa Giuni con l’inseparabile Maria Antonietta Sisini, e già questo basterebbe per incuriosire un pubblico anestetizzato da prodotti industriali e tutti uguali. Ma come non apprezzare il ripescaggio di pezzi splendidi e poco noti come “Sotto ‘e cancelle” e “Serenatella a mare”, la reinterpretazione di classici come “Torna a Surriento” e “’O sole mio”, le garbate incursioni elettroniche che nulla tolgono alla classicità dell’opera (già sperimentate con il prezioso “A casa di Ida Rubistein”, L’Ottava, 1988), oppure le toccanti “O vos omnes” e “A cchiù bella”, che Giuni presta dal suo repertorio per impreziosire un disco già così intenso. E proprio “’A cchiù bella”, tratta da “’A livella” di Totò, è stata l’ultima composizione di Giuni, l’ultimo atto d’amore. Ma c’è un momento, inatteso e folgorante, che prende il cuore e lo stomaco. E’ “Invocazione”, una trama di vocalizzi di rara, struggente intensità, composta dal maestro Fedrigotti e dalla stessa Giuni.  C’è posto anche per due “ghost track”, la leggiadra “Mediterranea” e l’orientale “Sakura”, eseguite dal vivo al Teatro Zancanaro di Sacile, in Friuli, il 18 ottobre 2003 in occasione del Festival Internazionale del Cinema Muto. Fu l’ultima, grandiosa, esibizione di Giuni, una “standing ovation” indimenticabile per chi c’era, ma ben testimoniata anche dalle immagini del Dvd.Quanto Napoli abbia saputo apprezzare quest’estremo omaggio di una grande artista non è dato sapere. Nel 2004 Giuni avrebbe dovuto esibirsi nel Chiostro di Santa Chiara, e mai “location” sarebbe stata più adatta. Ma, unitamente al Festival di Taormina, la tappa fu cancellata per colpa di una salute sempre meno salda. Resta, preziosa e immutabile, un piccolo grande capolavoro. L’amore, ricambiato, della gente ha accompagnato la vita e la carriera di Giuni Russo. A compensare questo affetto a volte persino morboso, le Istituzioni Culturali hanno sempre avuto difficoltà a riconoscere il valore artistico di Giuni, e di altri artisti meno catalogabili, meno addomesticabili alle turpi leggi di mercato. In una città che mastica con la stessa apatia delitti e canzonacce neo(?)melodiche, Giuni ha offerto un’oasi di purezza acustica, di magia rarefatta, di fulgida poesia.