La voce di Megaride

Qualcuno la chiama MOBILITA'


di Emanuela Rullo, giovane emigrante dell'ultima generazione.
Lontano, ove il tempo tesse cinico la sua tela; lontano, estirpati dal proprio sistema sociale; lontano da casa, dagli affetti, dalla propria vita; lontano per un lavoro, per la possibilità di costruirsi un futuro - ma un futuro in bianco e nero - senza i colori del proprio mondo. Lontano, senza avere scelto, privati della possibilità di vivere in maniera completa la propria esistenza.  Il fenomeno dell’emigrazione giovanile meridionale, un’emigrazione interna, silenziosa, continua ed ignorata, che ogni giorno trasferisce, dal sud al nord del paese, capitale umano e forza lavoro, alimenta il progressivo impoverimento del Mezzogiorno d’Italia esautorando lo stesso oltre che della possibilità di migliorare la propria condizione economica, della forza di combattere sentimenti come la rassegnazione e l’assuefazione allo stato attuale delle cose, sentimenti che sempre più costituiscono una seria minaccia alla sopravvivenza stessa del suo sistema sociale. Non sarà, difatti, il perpetrarsi di uno stato di arretratezza economica né il gozzovigliare di malavita organizzata, né la perdurante assenza dello stato e dei suoi rappresentanti a svilire e progressivamente ad uccidere la mia Terra, bensì la morte della speranza, la rassegnazione, l’assuefazione, il suo popolo che si arrende e progressivamente muore. Essere emigrante vuol dire vivere in un luogo che non è la propria Terra, tra strade e volti che per te non significano nulla, solo e smarrito nei vicoli di un’esistenza che diventa lento scorrere di ore e di giorni, spesso in attesa del ritorno a casa.  Alcuni certo obietteranno come non sia corretto definire emigrazione il trasferimento per motivi di lavoro di un giovane meridionale nell’altra terra di lavoro, purtuttavia Io, Emanuela Rullo, nata ad Avellino il 10 ottobre del 1977 non sono altro che un "emigrante", e lo sono perché per ragioni estranee alla mia volontà ho trasferito la mia dimora in un luogo che non è la mia casa, che questo luogo sia a trecento, milleduecento o a svariate migliaia di chilometri di distanza, poco importa. Nel settembre 2003, a poco più di un mese dalla mia laurea in economia, ho abbandonato la mia Terra per entrare a far parte di quello che io definisco “Il popolo degli emigranti”. E come me, infatti, gran parte dei miei parenti e amici e conoscenti sono a tutt’oggi emigranti, ed in quanto tali ignari protagonisti di una piccola fetta di storia, che nessuno ritiene necessario raccontare. Ed è proprio per dare voce al loro ed al mio dolore, e
insieme alla nostra indignazione e al nostro rimpianto, che nasce questa mia testimonianza, "...il mio bisogno di urlare al mondo che Io esisto e che esiste un fenomeno ovvero quello dell'emigrazione giovanile meridionale di cui nessuno parla, che nessuno denuncia come fosse nel corso normale delle cose, e che invece è ormai una valvola di sfogo fuori controllo che svilisce la mia Terra e incatena il futuro del mio popolo", parole che andrebbero scolpite nella roccia, tanto è amaro il ripetersi di qualuque voce ufficiale del potere, delle istituzioni, che afferma che l'emigrazione giovanile non esiste, che l'emigrazione è finita, che al limite si tratta di mobilità, e tu non sai che fare, sebbene sia talmente evidente che non è così (Alessio da Bruxelles). Ad ogni individuo dovrebbe essere riconosciuto il diritto di vivere la propria esistenza nel luogo ove più desidera ed essere privato di questa possibilità rappresenta una sorta di minaccia all’esistenza stessa dell’individuo (Luisa da Latina). Spesso, infatti, non ci si adatta mai alla nuova terra in cui ti è toccato emigrare e inoltre al ritorno a casa sei uno straniero in Patria, uno "che ha
fatto la cosa giusta..." (dicono), uno che cammina nella SUA città come uno stonato ricordando cose, persone e luoghi che ormai esistono solo nella sua memoria. Uno che si incazza quando si sente dire "che è stato furbo", perché "ccà nun se pò campa’, ‘a  fatica nun ce stà, ci arrangiamo come possiamo, ma tu no,’n 'copp fai ‘o signore..."... (salvatore di aversa) “perché è vero può essere doloroso affacciarsi alla finestra la mattina e vedere una città che non si sente propria... ma per una persona che è rimasta giù ve ne sono di molto più dolorose, perché Noi al sud sembra che ce la mettiamo tutta per non cambiare le cose, sembra che ce la mettiamo tutta affinché i nostri giovani continuino ad emigrare. Ce la mettiamo tutta affinché chi ha voglia di lottare si divida e non si unisca. E voi? ed i vostri figli? Bè, voi continuerete, in questo modo, a restare dove siete e noi continueremo a lottare.... inutilmente.” (antonio da napoli). Così accade che chi è emigrato e chi non s’invidia vicendevolmente poiché ognuno vede nella disponibilità dell’altro ciò cui ha rinunciato ed entrambi portano il peso di un’esistenza colma di rimpianto. A tutti loro, a chi è rimasto, a chi ha dato tutto, a chi ha preso troppi calci, a chi è andato troppo lontano e per troppo tempo e casa è meglio che se la dimentica perché non c’è più nessuno, ecco io dedico la mia testimonianza e la mia rabbia nella speranza che questa voce possa trovare finalmente ascolto e tutto questo dolore, finalmente, comprensione e rispetto, e tutto ciò nella speranza di trovare loro un condotto e veicolarli in primo luogo al mio popolo, perché possa ritrovare la forza di combattere, e in secondo luogo all’Italia, quest’Italia di brevi orizzonti, che sembra non comprendere che il conflitto tra Nord e Centro-Sud non esprime altro che la stupidità e la cecità di un popolo che non valorizza le proprie risorse e che non riconosce se stesso come appartenete ad un unico sistema chiamato a perseguire il medesimo fine e a condividere la medesima sorte. (E.R. www.iocolibri.it)