di Gennaro Capodanno
Rischia di finire nelle aule di un Tribunale la polemica sul novello Pappagone che prima ha tappezzato la Città con manifesti e poi ha fatto solcare da un Piper i cieli di Napoli con uno striscione sul quale, rivolgendosi naturalmente ai napoletani, ci ha apostrofato come “popolo di munnezza”. Chi è dunque il nostro? Ieri, un quotidiano, in esclusiva, svelava che la maschera napoletana s’incarnava in un imprenditore della Sanità, il rione che diede i natali al grande Totò; oggi un altro quotidiano, smentendo il primo, afferma, prove pronte alla mano, che Pappagone si è diviso in quattro, essendo stato “resuscitato” da un quartetto di giovanotti, appunto, che intendevano fare una “goliardata”. Sì, perché adesso i napoletani, oltre a dover convivere con cumuli d’immondizia, con strade macchiate dal sangue di vittime innocenti e non, con l’aria appestata dallo smog, devono anche essere apostrofati come “popolo di munnezza” dai loro concittadini, nel tentativo di svegliarli, si dice, dal loro atavico torpore. E pensare che quando il mai dimenticato Peppino De Filippo, nel lontano 1966, creò quella che è stata definita l’ultima maschera della commedia dell’arte, Pappagone appunto, il successo fu tale che la critica comincio a discettare per spiegare l'origine del nome, tirando in ballo Pappus e Arpagone. Peppino spiegò molto più semplicemente, in televisione, che Pappagone era invece una qualità di prugna venduta sui banchetti dei fruttivendoli di Napoli. "Ecquequa!", a Napoli siamo oramai arrivati alla frutta…