La voce di Megaride

L'avventura di Procida Marinara


di Sergio ZazzeraVi fu un momento, allo scoccare del cinquantennio della monarchia borbonica, in cui, se alla marineria sorrentina spettò il primato per le dimensioni dei suoi scafi, quella procidana, viceversa, conquistò quello della consistenza numerica del naviglio: ed erano trascorsi, all’incirca, quattro secoli dal momento in cui i leggendari mastri calafati Perotto di Martano e Iacopo Assante avevano cominciato a costruire galee regie alla marina della Lingua, mentre i commerci con la terraferma più vicina – quella, cioè, napoletana e quella flegrea – erano intrattenuti dai marinai di Procida con l’impiego d’imbarcazioni leggere, come tartane e marticane. Del resto, non v’è dubbio che le sorti di un’isola siano strettamente legate al mare che la circonda, a quello stesso mare che consente l’accostamento e, soprattutto, il temuto sbarco dei pirati Barbareschi (più crudele, fra tutti, quel famigerato Khair-ed-Din, detto “Barbarossa”), cui si tenta di porre rimedio, oltre che rinserrandosi nel borgo di Terra Murata o in casali ben muniti, come il “Vascello”, anche votandosi a san Leonardo, patrono degli schiavi, alla Madonna della Libera, che “libera”, per l’appunto, dai pericoli, e, soprattutto, a san Michele arcangelo, che più volte ha folgorato, con la punta lucente della sua spada, le prore delle navi di quei predatori, facendole affondare; fra il 1615 e il 1617, poi, i “padroni di barca” dell’isola danno vita al “Pio monte dei marinari”, organismo di mutualità ante litteram, che provvede al riscatto dei marinai dell’isola fatti schiavi dai Barbareschi, oltre che alla dotazione delle più povere tra le giovani in età da marito.
Le 169 navi da carico ascritte al naviglio isolano nel 1774 sono diventate, dunque, già 200 nel 1791, ma il loro numero è raddoppiato, appena cinque o sei anni dopo, e loro meta diventano i porti del Nord Europa e poi, progressivamente, quelli del Baltico e del mar Nero, la costa occidentale dell’Africa, le Antille, la Martinica e il Brasile: una colonia procidana s’insedia, addirittura, in Algeria, a Mers-el-Kebir, mentre, alla metà dell’’800, i brigantini dell’isola raggiungono, addirittura, il “Nuovo mondo”. Né, peraltro, la navigazione procede sempre senza pericoli, come attestano le numerose tavolette votive dipinte, presenti in alcune delle chiese procidane, da quella Abbaziale, a quelle della Madonna della Libera e di San Giuseppe. Già dal 1834, inoltre, si trova attestato il fenomeno delle c.dd. “famiglie armatoriali” – i Mazzella, gli Assante, i Florentino, gli Scotto, gli Scotto di Pagliara, i Nugnes –, sorta di novelli clan gentilizi, i cui componenti, uomini e donne, sono impegnati, ciascuno secondo le proprie capacità, nell’attività d’armamento e di noleggio “a caldo” dei brigantini di loro proprietà, realizzati, per lo più, dal cantiere locale, gestito, dapprima, da Giacinto Scotti e, poi, dal mitico mastro Arcangelo Lubrano di Vavaria e dal figlio di lui, Nicola. Per assicurare la formazione dei capitani – affidata, finora, alla scuola napoletana di San Giuseppe a Chiaja –, nasce, altresì, in questo stesso scorcio di tempo, la Scuola comunale di navigazione, destinata a diventare, in prosieguo di tempo, Regio istituto nautico e di costruzione navale.
L’“età dell’oro” della marineria procidana coincide con il periodo postunitario e vede, da una parte, il consolidamento del fenomeno delle “famiglie armatoriali” – i Guida, i D’Abundo, i Galatola, i Lubrano di Vavaria, i Mazzella di Stelletto, i Fevola, i Mazzella di Bosco, i Lubrano di Scampamorte, i Mazzella, gli Scotto Lachianca, i Mignano – e, dall’altra, i primi passaggi di capo Horn, nei quali particolare esperienza acquisiscono i capitani Vincenzo D’Ambrosio e Antonio Scotto di Monaco. Circostanze contingenti vedono, perfino, assumere il comando d’uno scafo una donna, Marialuisa Ambrosino, imbarcatasi sulla nave comandata dal marito, Domenicantonio Scotto di Santillo, allorché costui è colto, improvvisamente, da una grave infermità, durante la navigazione. A sostegno delle attività marinare nascono, in questo stesso periodo, la “Mutua di assicurazione procidana” (1867) e la Banca popolare “Giovanni da Procida” (1873). A segnare, purtroppo, il progressivo declino della gloriosa marineria procidana è il prevalere della navigazione a vapore su quella velica: la diffidenza innata dell’isolano verso ogni manifestazione di “novità” , soprattutto se vi sono connessi rischi, induce, infatti, gli armatori di Procida, tutt’al più, a dare una parvenza di nuovo agli scafi dei loro velieri, facendoli foderare di metallo, mentre soltanto qualcuno tenta un timido approccio con i “vapori”, più che altro, per l’intensificazione del trasporto di passeggeri e merci da e verso la terraferma, sia napoletana, che flegrea, come il pioniere Maurizio Scotto di Santolo. Ancora nel dopoguerra, qualche armatore procidano – come i fratelli Muro, Pasquale Mazzella e i fratelli Allocco – tenta l’avventura del nuovo sistema di propulsione, abbandonandola, però, ben presto: da quel momento, sarà la più “ardita” marineria montese a prendere il sopravvento.(immagini: A) brigantino a palo "La Fiducia" (armatori Fevola) sullo scalo del cantiere; B) equipaggio, nella quale la freccia rossa indica il comandante Vincenzo D'Ambrosio)