di Sergio ZazzeraVi fu un momento, allo scoccare del cinquantennio della monarchia borbonica, in cui, se alla marineria sorrentina spettò il primato per le dimensioni dei suoi scafi, quella procidana, viceversa, conquistò quello della consistenza numerica del naviglio: ed erano trascorsi, all’incirca, quattro secoli dal momento in cui i leggendari mastri calafati Perotto di Martano e Iacopo Assante avevano cominciato a costruire galee regie alla marina della Lingua, mentre i commerci con la terraferma più vicina – quella, cioè, napoletana e quella flegrea – erano intrattenuti dai marinai di Procida con l’impiego d’imbarcazioni leggere, come tartane e marticane. Del resto, non v’è dubbio che le sorti di un’isola siano strettamente legate al mare che la circonda, a quello stesso mare che consente l’accostamento e, soprattutto, il temuto sbarco dei pirati Barbareschi (più crudele, fra tutti, quel famigerato Khair-ed-Din, detto “Barbarossa”), cui si tenta di porre rimedio, oltre che rinserrandosi nel borgo di Terra Murata o in casali ben muniti, come il “Vascello”, anche votandosi a san Leonardo, patrono degli schiavi, alla Madonna della Libera, che “libera”, per l’appunto, dai pericoli, e, soprattutto, a san Michele arcangelo, che più volte ha folgorato, con la punta lucente della sua spada, le prore delle navi di quei predatori, facendole affondare; fra il 1615 e il 1617, poi, i “padroni di barca” dell’isola danno vita al “Pio monte dei marinari”, organismo di mutualità ante litteram, che provvede al riscatto dei marinai dell’isola fatti schiavi dai Barbareschi, oltre che alla dotazione delle più povere tra le giovani in età da marito.
L'avventura di Procida Marinara
di Sergio ZazzeraVi fu un momento, allo scoccare del cinquantennio della monarchia borbonica, in cui, se alla marineria sorrentina spettò il primato per le dimensioni dei suoi scafi, quella procidana, viceversa, conquistò quello della consistenza numerica del naviglio: ed erano trascorsi, all’incirca, quattro secoli dal momento in cui i leggendari mastri calafati Perotto di Martano e Iacopo Assante avevano cominciato a costruire galee regie alla marina della Lingua, mentre i commerci con la terraferma più vicina – quella, cioè, napoletana e quella flegrea – erano intrattenuti dai marinai di Procida con l’impiego d’imbarcazioni leggere, come tartane e marticane. Del resto, non v’è dubbio che le sorti di un’isola siano strettamente legate al mare che la circonda, a quello stesso mare che consente l’accostamento e, soprattutto, il temuto sbarco dei pirati Barbareschi (più crudele, fra tutti, quel famigerato Khair-ed-Din, detto “Barbarossa”), cui si tenta di porre rimedio, oltre che rinserrandosi nel borgo di Terra Murata o in casali ben muniti, come il “Vascello”, anche votandosi a san Leonardo, patrono degli schiavi, alla Madonna della Libera, che “libera”, per l’appunto, dai pericoli, e, soprattutto, a san Michele arcangelo, che più volte ha folgorato, con la punta lucente della sua spada, le prore delle navi di quei predatori, facendole affondare; fra il 1615 e il 1617, poi, i “padroni di barca” dell’isola danno vita al “Pio monte dei marinari”, organismo di mutualità ante litteram, che provvede al riscatto dei marinai dell’isola fatti schiavi dai Barbareschi, oltre che alla dotazione delle più povere tra le giovani in età da marito.