... Innocenti in manette e cultura del diritto. di Alberto Miatello
Qualcuno rimarrà stupito leggendo il titolo di questo intervento, nel quale vengono accostati tre casi giudiziari ben diversi, per epoche, fatti e persone che ne furono protagoniste, e per il loro esito processuale. Eppure questi tre casi, e molti altri che per ragioni di tempo sarebbe troppo lungo esporre, hanno un minimo comune denominatore: tutti e tre i casi, per una serie di errori, hanno dato vita a processi lunghi e altamente controversi, nei quali, per varie ragioni, è più che fondato il dubbio (per Enzo Tortora è una certezza, perché alla fine fu assolto in via definitiva) che vi sia stato un colossale errore giudiziario, che ha portato a condannare persone innocenti, e questo errore fosse però evitabile.. Quindi il tema che vorrei trattare è proprio quello della possibilità di evitare gli errori giudiziari più gravi, in base a regole semplici e radicate (che ormai si vanno perdendo) di cultura del diritto. Vorrei subito sgombrare il campo da alcuni equivoci: non mi interessa discutere di "riforme" della giustizia, non è questa la sede, né vorrei dare una coloritura politica a questo intervento. Non perché - intendiamoci! - non vi sia necessità di riforme, e di un rinnovamento di tutto il sistema della giustizia, dai magistrati agli avvocati, ai codici, alle strutture, ai criteri di valutazione e disciplinari dei magistrati, che li portino ad essere meno "caste" che difendono lo status quo, e più professionisti moderni ed efficienti al servizio dei cittadini. E nemmeno sono interessato a discutere in termini di schieramenti ideologici, quali ad esempio i "giustizialisti" e gli "innocentisti", che solitamente troviamo quando l'opinione pubblica si divide per un caso giudiziario clamoroso. Anche qui si cade spesso in un equivoco: non ci dovrebbero essere né giustizialisti, né innocentisti, ma solo persone interessate a una giustizia penale che sappia davvero indagare con scrupolo ed efficienza, e sappia evitare (per quanto umanamente possibile) gli errori giudiziari, e punire con la giusta severità i veri colpevoli di gravi reati, evitando però di incriminare persone innocenti. Ogni caso è diverso dall'altro e non si dovrebbe generalizzare: una persona può essere ragionevolmente certa della colpevolezza di un imputato in un processo, e altrettanto certa dell'innocenza di un altro imputato in diverso processo, senza venire etichettato come colpevolista o innocentista. Non di rado si pensa che chi fa notare gli errori giudiziari, e il sospetto che un innocente abbia pagato ingiustamente, sia un "buonista", uno smidollato azzeccagarbugli che non farebbe mai incriminare nessuno, e permetterebbe con mille cavilli ai delinquenti di farla franca. Non è così, ma questo pregiudizio è ormai tanto radicato che vale la pena di chiarirlo subito. Qualche mese fa, la giornalista dell'"Espresso" Stefania Rossini, rispondeva a un lettore che faceva presente di avere grossi dubbi sulla colpevolezza di Annamaria Franzoni, sostenendo che, in base al ragionamento del lettore, in carcere ci starebbero solo i rei confessi, quindi solo una piccola minoranza di detenuti. Il ragionamento di Stefania Rossini è talmente diffuso (ed errato) in quanto figlio della dilagante perdita di una vera cultura del diritto, e del prevalere della c.d. "giustizia-spettacolo" mediatica di questi ultimi tempi, quella che esige vicende morbose e sempre nuovi colpevoli da dare in pasto per mesi o addirittura per anni all'opinione pubblica. Non è affatto vero, cara Rossini, che non si possa condannare con certezza anche chi non è reo confesso, evitando però l'abominio di condannare un innocente. Il diritto italiano prevede la possibilità del giudice di condannare - in base al suo libero convincimento - anche in mancanza di prove evidenti (o della confessione del reo), purché sussistano indizi "gravi, precisi, concordanti". Facciamo un esempio da manuale di indizi gravi, precisi, concordanti, pur in mancanza di prove, perché l'argomento è troppo importante, e va chiarito, dal momento che molti neppure sanno di che si tratta.Lorenzo Bozano e gli indizi "gravi, precisi, concordanti"Chi ha più di 40-50 anni ricorderà certamente il caso Sutter, il brutale omicidio di una ragazzina 13enne, Milena Sutter, a Genova nel 1971, strangolata e poi gettata in mare dopo essere stata rapita per estorsione (il padre era un noto industriale). Per questo omicidio venne condannato all'ergastolo Lorenzo Bozano, che dapprima fu assolto in 1° grado, poi condannato in appello nel 1975 (condanna confermata in Cassazione). Nel caso di Bozano fu notato che non vi erano prove evidenti di colpevolezza a suo carico. Ma vi erano però molti indizi davvero gravi, precisi e concordanti, sì che a mio (e non solo mio) modesto avviso i giudici agirono correttamente condannandolo al massimo della pena per quell'omicidio. Vediamoli. Prima del rapimento Bozano aveva parlato con amici della possibilità di rapire un minorenne e di ucciderlo, per poi chiedere il riscatto ai familiari (proprio come avvenne a Milena). Gli furono trovati in tasca di un abito appunti su un piano di sequestro dettagliato e sulle modalità di occultamento del cadavere, proprio in un luogo a breve distanza dal punto della costa in cui trovarono il cadavere di Milena Sutter. Bozano aveva sul corpo segni di colluttazione e graffi. Fu visto più volte con la sua auto nei pressi della scuola svizzera dove studiava la ragazza, e nei pressi della sua abitazione. Bozano era un sub e la cintura piombata usata per appesantire il cadavere della ragazza era uguale a quella che aveva posseduto e che asseriva di aver venduto (ma non seppe poi spiegare a chi). Inoltre indicò un alibi falso per le ore del sequestro della ragazza, e c'erano tracce di orina (reazione neuro-fisiologica allo strangolamento) sul sedile accanto a quello del conducente della sua auto, ecc., ecc. Tutti questi indizi, valutati globalmente e organicamente nel complessivo quadro probatorio raccolto dagli inquirenti, orientavano in modo chiaro e univoco a ritenere che l'autore del delitto fosse proprio lui: Lorenzo Bozano. Non è quindi vero che non vi siano i mezzi per potere condannare i veri colpevoli di un delitto pur in assenza di prove evidenti. Ma è possibile farlo SOLO se gli indizi sono davvero concreti e convergenti! Questo è il primo dei capisaldi del diritto che dovrebbe costituire la "religione" di ogni inquirente e magistrato, e dovrebbe venire insegnato (e non lo si fa!) nelle università, nelle scuole di polizia, nelle scuole di preparazione e perfezionamento per magistrati, avvocati, periti, ecc., ecc.: avviare azioni penali SOLO in presenza di vere prove, o veri indizi! Aggiungo poi una considerazione. In quest'epoca, con i mezzi tecnologici di cui disponiamo, è vieppiù difficile commettere impunemente un delitto grave, come ad esempio un omicidio. Rispetto al passato è sempre più difficile evitare di lasciare tracce organiche minuscole (capelli, sudore, sangue, ecc.), o riuscire a evitare telecamere cittadine, o evitare di lasciare tracce su computers, telefonini, carte di credito, ecc. I bravi inquirenti (e ce ne sono!) lo sanno benissimo, e sanno che indagini tempestive e professionali, portano nella maggioranza dei casi a individuare gli autori di gravi reati. Quindi sono infondate le preoccupazioni di quanti temono che magistrati rigorosi, ma garantisti, finiscano per lasciare impuniti i colpevoli di reati gravi. Va però combattuta un'altra pericolosissima tentazione (purtroppo frequente). Quella che porta -a volte inconsciamente - gli inquirenti a voler perseguire un innocente sospettato senza vere prove o veri indizi, solo per "accontentare" l'opinione pubblica, o i media, o le forze dell'ordine, nell'ansia di dimostrare che comunque "il caso è risolto", o semplicemente per riluttanza ad ammettere di aver lavorato per nulla indagando a lungo un innocente, o infine per l'orgoglio di non voler ammettere di aver seguito una pista sbagliata. Prima di tutto perché se in carcere finisce un innocente, il caso non è affatto risolto, anzi, ci sarà un colpevole vero che se la ride e forse continuerà a delinquere, e ci sarà un innocente con la vita distrutta. Due ingiustizie in un colpo solo! Mentre se gli inquirenti avessero il coraggio di ammettere di non avere sufficienti indizi contro il sospettato, il rischio più grave, se sbagliassero, sarebbe quello di lasciare libero un solo colpevole, quindi una sola ingiustizia.Senza considerare il costo economico per la collettività di indagini che seguono ad ogni costo false piste, in termini di tempo e risorse sprecate, processi inutili, ecc. Io posso riferire, a questo proposito, un colloquio di alcuni anni fa con un validissimo magistrato, il dott. Ugo Paolillo, oggi procuratore della repubblica di Rieti. Paolillo mi diede una grande lezione di civiltà giuridica. Stavamo discutendo di un clamoroso delitto di cui lui ebbe a occuparsi (come giovane sostituto procuratore) a Milano nel 1971, la brutale uccisione a coltellate di una giovane laureata nei bagni dell'università cattolica. Il dott. Paolillo mi disse di avere sospettato diverse persone, che si trovavano sui luoghi del delitto quando era avvenuto. Ma indizi veri non ne aveva trovati, e alla fine si era rassegnato, dopo aver svolto molte indagini meticolose, ad archiviare il caso come insoluto. Mi disse che quello era in pratica l'unico rimasto insoluto, tra i vari delitti di cui si era occupato a Milano. Ma lui seppe resistere al clamore mediatico (all'epoca molto minore di oggi) - che voleva un colpevole dietro le sbarre - per applicare un grande principio di civiltà giuridica: "in dubio pro reo", se ci sono dubbi e carenza di indizi, inutile perdere tempo ad accanirsi contro un sospettato. Sempre ricordando che umanamente ogni tanto può anche capitare che un delitto grave, nonostante le indagini accurate, rimanga insoluto.Purtroppo può accadere.Perché Annamaria Franzoni doveva (e deve) essere assolta.Alla luce del principio sopra ricordato (incriminare solo se ci sono prove, o almeno indizi gravi), è facile capire perché, nonostante in tutti e tre i gradi di giudizio sia stata ritenuta colpevole dell'omicidio del figlio Samuele, Annamaria Franzoni avrebbe dovuto essere non solo assolta, ma addirittura neppure rinviata a giudizio. Anche qui, sgombriamo subito il campo da un altro equivoco. Non ha senso affermare (come fanno in molti): "Se l'hanno sempre giudicata colpevole, in tutti e 3 i gradi di giudizio, vuol dire che lo era davvero!" Si potrebbero ricordare casi clamorosi di persone che, come Salvatore Gallo negli anni '50, furono condannate in tutti i gradi di giudizio, fino in Cassazione, per l'assassinio del congiunto (in questo caso il fratello). Nel caso di Salvatore Gallo il clamoroso errore giudiziario fu riconosciuto solo quando il fratello ricomparve vivo e vegeto (e dovettero addirittura cambiare il codice di procedura penale, per concedere al condannato la revisione del processo!). Oppure, più di recente, il caso di Daniele Barillà, quell'imprenditore milanese che passò 7 anni in carcere (condannato a 15 anni di reclusione), dal 1992, con l'accusa di essere uno spacciatore di droga e associato a delinquere, avendo avuto la sfortuna, nel corso di un'indagine, di avere l'auto dello stesso colore e modello (perfino le prime cifre della targa erano simili!) di quella di un grosso spacciatore, e di essere finito nel bel mezzo di un pedinamento dei carabinieri al posto del vero spacciatore! Anche lui fu condannato in tutti e tre i gradi di giudizio, e solo dopo anni, ottenuta la revisione del processo, poté dimostrare la sua innocenza (ottenendo anche un maxi risarcimento di 4 milioni di euro, per ora pagato solo per metà dallo Stato italiano). E casi simili accadono, quindi purtroppo è del tutto possibile che un innocente venga condannato in tutti i gradi di giudizio, dal 1° grado alla Cassazione. Ma nel caso di Annamaria Franzoni, qualcuno - e lo ha fatto - potrebbe obiettare: "Va bene, ma quella donna ha avuto i migliori avvocati, ha ottenuto l'attenzione dei media, che possiamo farci se l'hanno sempre condannata?" Il problema è che anche i migliori avvocati possono sbagliare insieme ai magistrati. La dr.ssa Pozzi è, come noto, una dei 4 (almeno) medici italiani (insieme ai dottori: Migliaccio, Pasquin e Sauro) che affermano, sia pure con posizioni diversificate e articolate, ma con dovizia di argomenti tecnici e solida esperienza professionale, che la morte di Samuele Lorenzi non fu dovuta a un'aggressione, ma a cause patologiche e/o accidentali (emorragia cerebrale e crisi epilettica con emissione di vomito ematico). Il punto fondamentale è che Annamaria Franzoni non avrebbe neppure dovuto essere rinviata a giudizio, quella morte del figlioletto poteva in breve essere ricondotta nell'alveo delle casistiche mediche della morte naturale, come subito intuito dalla stessa Franzoni e dalla dr.ssa Satragni, che per prima aveva visto il piccolo agonizzante. Già nel corso delle indagini preliminari sarebbe stato possibile accertare che (in sintesi): La perizia necroscopica del dott. Viglino, a Torino, era errata e lacunosa in diversi punti, avendo egli omesso di notare la frattura occipitale sulla parte posteriore del cranio del piccolo (ciò che escludeva l'aggressione frontale con oggetto contundente, ed era invece compatibile con l'urto accidentale del capo del bimbo contro la spalliera del letto, o contro il muro), come rilevato dalla dott.ssa Pozzi. Le lesioni sul cuoio capelluto del bimbo erano piccole, superficiali e incompatibili con l'aggressione violenta da parte di un adulto, e non vi era traccia alcuna di ecchimosi sulle braccia del piccolo (se fosse stato colpito avrebbe dovuto essere afferrato e tenuto fermo) né in altre parti del corpo. Un bimbo di 3 anni colpito da un adulto con violenza al capo 17 volte (e anche meno) sarebbe morto nel giro di pochi minuti, e non dopo un paio d'ore in ospedale, come rilevato giustamente dal dr. Migliaccio. Se Samuele fosse morto per un'aggressione con colpi al capo (di mestolo o sabot), non si sarebbe trovato tutto quel sangue "sparato" su muri e soffitto. Sarebbe stramazzato sul letto privo di sensi dopo i primi colpi, e il sangue sarebbe poi colato lentamente da naso e bocca, come avviene tipicamente negli omicidi per bastonatura e trauma cranico. La presenza di quel sangue scagliato a grande distanza è un chiaro elemento a favore della crisi epilettico-convulsiva seguita all'emorragia cerebrale, e della conseguente espulsione patologica del vomito ematico ipertensivo, e del piccolo frammento d'osso della volta cranica Non era stata trovata sulla scena dell'evento luttuoso, sul letto, sulla trapunta, sul cuscino, sulle lenzuola, ecc., traccia alcuna di impronta di mano, o dita, di strusciature, pulitura di oggetti insanguinati, ecc., né traccia di capelli, sudore, ecc. Tutto ciò è palesemente in contraddizione con l'ipotetica aggressione da parte di un individuo (madre o estraneo che fosse) squilibrato che - da un lato - avrebbe perso il controllo completo delle facoltà mentali (fino al punto di "rimuovere" poi il delitto: presunto stato "crepuscolare"), e dall'altro sarebbe stato nel contempo così attento, freddo e meticoloso, da evitare di lasciare qualsiasi traccia, anche minuscola, della sua violenta aggressione, e della sua fuga. L'ipotesi è evidentemente inverosimile. Il fratellino di Samuele, Davide, che pure dormiva con la porta aperta, quella mattina non riferì alcun fatto anomalo (urla, lamenti, rumori, colpi, ecc.) che pure avrebbero dovuto essere uditi se la madre avesse perso improvvisamente la testa uccidendo Samuele, né ricordava comportamenti strani della madre, o un suo stato mentale alterato nel percorso da casa alla fermata del pullmino dello scuolabus. Non erano state rilevate tracce di lavature di sangue, sugli abiti della Franzoni, sul suo corpo, tra i capelli, nel bagno, sugli asciugamani, (ove vi fossero state davvero, le tracce, anche minime, e anche se ripulite con lavaggi accurati, sarebbero ugualmente state rilevate nei successivi sopralluoghi dei RIS nei locali della casa) Non è mai stata individuata alcuna arma dell'ipotetico delitto Le perizie sul pigiama della Franzoni e la BPA (Bloodstain Pattern Analysis, la tecnica di analisi delle macchie ematiche e della loro provenienza e direzionalità) effettuate dai RIS sono in contraddizione con la medesima tecnica applicata dal perito della procura di Aosta (dott. Schmitter). I primi affermano che l'aggressore avrebbe indossato sicuramente la casacca del pigiama, il secondo che avrebbe indossato sicuramente i pantaloni. E una terza perizia di quelle macchie (del dott. Carmelo Lavorino) smentisce le prime due, affermando che quel sangue sul pigiama è in quantità troppo modesta per essere compatibile con un'aggressione. Quindi le perizie su quel pigiama (che tanto ha pesato per la condanna della Franzoni!) forniscono in realtà un esito ambiguo e contraddittorio. Alla luce di quanto sopra, già nel corso delle indagini preliminari, il magistrato inquirente avrebbe potuto accertare che la morte di Samuele era con elevata probabilità da attribuire a un evento accidentale e/o patologico, ma non certo a un'aggressione. E preso atto delle varie contraddizioni delle perizie, avrebbe dovuto trarne una sola conclusione: assolvere Annamaria Franzoni perché il fatto (omicidio) non sussisteva, e suo figlio era con ogni probabilità morto per una disgrazia. Ancor più intollerabile, nel "caso Cogne", il fatto che tanto la dr.ssa Pozzi quanto il dr. Migliaccio abbiano in ripetute occasioni espresso le loro convinzioni di medici esperti, con numerosi esposti alle autorità competenti, ma nessuno si sia degnato di prenderle in considerazione e di rispondere, anche solo per smentirle. E poco importa che anche gli avvocati della Franzoni fossero convinti si fosse trattato di omicidio (compiuto da un fantomatico estraneo in 8 minuti). Va ricordato infatti che, col nuovo codice di procedura penale del 1989, il pubblico ministero non è solo un rappresentante dell'accusa, ma ha il DOVERE, ai sensi dell'art. 358 c.p.p., di svolgere "…altresì accertamenti su fatti e circostanze A FAVORE della persona sottoposta a indagini". Al di là della possibilità di ottenere la revisione del processo ad Annamaria Franzoni in Italia, ritengo che il comportamento delle autorità competenti, che hanno omesso del tutto di svolgere accertamenti su quanto segnalato da medici esperti come la dr.ssa Pozzi e il dr. Migliaccio, legittimi la possibilità di adire la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo, che potrebbe condannare l'Italia per grave violazione delle regole processuali.Bruno ContradaA favore del dott. Bruno Contrada, alto funzionario di polizia e capo della Criminalpol di Palermo, stretto collaboratore (e amico fraterno) di Boris Giuliano, hanno parlato molte persone di altissimo livello morale e professionale: magistrati integerrimi, alti ufficiali di Polizia e Carabinieri con anni di validissima esperienza professionale, e anche parenti stretti e congiunti di funzionari uccisi dalla mafia (come l'avv. Costa, figlio del giudice ucciso dalla mafia nel 1980, come Maria Falcone, sorella del dott. Giovanni Falcone, come la moglie di Boris Giuliano, ecc., ecc.). Trentadue encomi solenni a riprova della professionalità di anni e anni spesi rischiando la vita contro la criminalità organizzata e della più totale estraneità di Bruno Contrada ad ambienti mafiosi, e tra questi encomi spicca proprio quello dell'uomo assurto per tutti a simbolo stesso della lotta alla mafia, il dott. Giovanni Falcone. Eppure tutto ciò non è bastato ai giudici, che hanno condannato Contrada per un reato infamante (in particolare per un funzionario di Polizia), basandosi soprattutto su propalazioni di "pentiti" prive di riscontro o del tutto generiche, o su testimonianze "de relato" (presunte confidenze di persone ormai defunte) vaghe e fragili di presunte "diffidenze" verso Bruno Contrada. Anche qui, sono state sovvertite le regole basilari che dovrebbero presiedere alla valutazione degli indizi da parte dei giudici.La Corte di Cassazione stessa ha statuito infatti che: "…Secondo i rigorosi criteri legali dettati dall'art. 192 comma 2, cod. proc. pen. gli indizi devono essere, infatti, prima vagliati singolarmente, verificandone la valenza qualitativa individuale il grado di inferenza derivante dalla loro gravità e precisione, per poi essere esaminati in una prospettiva globale unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo: sicché ogni "episodio" va dapprima considerato di per sé come oggetto di prova autonomo onde poter poi ricostruire organicamente il tessuto della "Storia" racchiusa nell'imputazione (da ultimo, per un'analoga fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, v. Cass., Sez. VI, 6.4.2005, P.G. in proc. Maras). Ma tutto ciò non pare affatto essere stato il criterio seguito nel processo Contrada, dove invece ha prevalso la c.d. "atomizzazione" e "frammentazione" dell'analisi delle fonti di prova, un metodo del tutto illogico e arbitrario nella valutazione di prove e indizi. In sostanza, se per i giudici il pentito A riferiva un episodio del passato accusando Contrada, e se in seguito un altro pentito B ripeteva e confermava quel racconto, tutto ciò secondo loro era sufficiente per ritenere che l'accusa fosse fondata, se il contesto storico-ambientale in cui i fatti sarebbero avvenuti era verosimile. Ora, è ben evidente quanto questo criterio sia del tutto arbitrario, grossolano e pericoloso, e lasci spazio al rischio di errori clamorosi. Il pentito B potrebbe infatti essersi accordato col pentito A, per inventare un'accusa calunniosa per odio personale, o per ottenere vantaggi. Ma soprattutto, come stabiliva giustamente la sentenza sopra riportata, ogni dichiarazione deve essere rigorosamente riscontrata, occorre indagare scrupolosamente per stabilire se i fatti e le circostanze riferite dal collaboratore siano veri e plausibili. Per cui è evidente che, quando un pentito riferisce di un incontro riservato con Bruno Contrada in una saletta di un ristorante, e poi si accerta che quella saletta non era mai esistita, che il titolare del ristorante esclude di aver visto Contrada e il pentito nel suo locale, che il pentito in questione era latitante all'epoca del presunto incontro (e quindi non sta né in cielo né in terra che il capo della Criminalpol di Palermo fosse tanto stupido e sprovveduto da andarlo ad incontrare in pubblico in un ristorante!), ecc., ci vuole poco a concludere che quel racconto è falso, e poco importa se in seguito spuntino altri "pentiti" che lo confermino. Ma anche talune testimonianze contro il dott. Contrada da parte di persone senz'altro autorevoli e rispettabili, come la dott.ssa Carla Del Ponte, oggi magistrato della Corte dell'Aja contro i crimini di guerra, e all'epoca procuratore pubblico a Lugano, avrebbero dovuto essere valutate in modo ben più rigoroso: di talchè quella testimonianza, ben lungi dal rappresentare una solida prova per l'accusa, avrebbe dovuto essere ridimensionata al rango di semplice pettegolezzo da pausa-pranzo. Carla Del Ponte riferisce di un "sorriso" da parte dell'industriale Tognoli, alla domanda di Falcone circa un presunto coinvolgimento di Contrada in attività di intralcio alle indagini. Sennonché il dott. Giuseppe Ayala, che faceva parte del pool antimafia ed era presente a quell'interrogatorio, interrogato in proposito non ricordò assolutamente la circostanza riferita da Del Ponte. La Del Ponte fu smentita anche quando affermò che Falcone in seguito le aveva detto che stava indagando su quelle "affermazioni" (se tale può definirsi un sorriso ammiccante!). Non vi è alcun verbale redatto dal dott. Falcone di apertura di fascicoli d'indagine a seguito di quelle presunte rivelazioni di Tognoli, sicché o l'episodio non è avvenuto, oppure se è avvenuto davvero, Giovanni Falcone medesimo non vi attribuì alcuna importanza, e correttamente non diede alcun credito a Tognoli, e non diede alcun seguito alla sua allusione contro Contrada.ConclusioniMi pare quindi si possa concludere, dall'analisi dei casi giudiziari sopra riportati, che il deterioramento della cultura del diritto, e la mancanza di attenzione e scrupolosità nel valutare il peso e il valore delle prove e degli indizi (e ho voluto prendere ad esempio un caso giudiziario famoso come quello di Lorenzo Bozano per esemplificare cosa si intenda per veri indizi gravi, precisi e concordanti), sia alla base degli errori giudiziari più clamorosi. Sono assolutamente convinto che la cultura del diritto andrebbe insegnata come materia autonoma nelle università, nelle facoltà di giurisprudenza, e nelle scuole di specializzazione per operatori del diritto. Ritengo infine che al deterioramento della cultura del diritto, negli ultimi tempi, abbiano contribuito vari fattori: Dilagare della "giustizia" c.dd. mediatica: quando i processi penali vengono fatti in TV più che nelle aule giudiziarie, e quando non pochi inquirenti e magistrati assecondano questa tendenza dei media nel cercare morbosamente sempre nuovi casi e colpevoli da dare in pasto all'opinione pubblica e su cui costruire mesi o addirittura anni di talk-show spazzatura, si può ben dire che è la fine della vera giustizia. Orgoglio e chiusura mentale di molti magistrati e inquirenti: tra i concetti che dovrebbero venire scolpiti nel bagaglio culturale e professionale degli inquirenti e dei magistrati nel penale, vi dovrebbe essere quello della flessibilità e disponibilità a modificare sempre la propria opinione, qualora sopravvengano nuovi fatti in contrasto con le prime ipotesi. In sostanza, i magistrati dovrebbero accettare come un fatto normale, nella loro attività professionale, la possibilità che le ipotesi accusatorie vengano contraddette da nuovi fatti. Succede invece, come ha sottolineato anche l'avv. Della Valle, il difensore di Enzo Tortora, che non pochi magistrati (per fortuna non tutti!) per arroganza, presunzione e orgoglio personale non accettino mai l'idea che l'accertamento della verità nel processo penale è un'attività complessa e in continuo divenire, per cui è normale che col tempo emergano fatti nuovi, che obbligano e rivedere - magari più volte - e se necessario a modificare le proprie convinzioni. Ma tutto ciò non significa affatto che il magistrato sia poco efficiente o poco capace. Lo è invece quando rifiuta ostinatamente di rivedere le proprie posizioni, anche a fronte di nuovi fatti importanti, e preferisce che un probabile innocente venga condannato! Mancata comprensione dei concetti di vere prove e veri indizi e del principio: "in dubio pro reo": Mi pare evidente come negli ultimi anni i concetti-cardine di tutto il diritto processuale penale, la prova e l'indizio, siano stati interpretati in maniera arbitraria e ondivaga da numerose corti. Imprimere nella mente e nel bagaglio culturale e professionale degli inquirenti e dei magistrati, e degli studenti di legge, il significato corretto di cosa è veramente una prova e cosa sono i veri indizi, e del principio supremo a garanzia dei diritti delle persone: "in dubio pro reo", mi sembrano le cose più urgenti da fare.