... sulamente chi 'ce steva, 'o ssape ch'è stato!
“ Miei cari, l’8 settembre, come voi già sapete, ero in batteria a Piombino alla 190.a. Il 9 settembre sono entrate in porto due cacciatorpediniere tedesche, 14 mezzi da sbarco e un piroscafo armato. La batteria è stata circondata da marinai tedeschi armati e dopo una mezz’ora è venuto un tedesco e ha detto che potevamo rimanere ai nostri posti, bastava che non facessimo atti di ostilità; egli avrebbe messo due suoi marinai di servizio al semaforo per le segnalazioni con le navi di passaggio nel canale di Piombino… e così avvenne. Io ero, quel giorno, di ispezione ed ebbi l’ordine dal comandante che a tempo dbito avrei dovuto disarmare i due marinai suaccennati. Andai da loro e mentre parlavo del più e del meno, verso le ore 18, le navi dal porto incominciarono a sparare a fuoco serrato sulla batteria. Noi tre che eravamo sul terrazzo del semaforo, ci gettammo pancia a terra e strisciando scendemmo giù. Presi i due marinai con la scusa di correre verso il ricovero; ad un certo momento, mi girai di scatto, fingendo con una mano in tasca di avere una rivoltella e gridai “ALT!”. I due “giannizzeri” alzarono le mani e si fecero disarmare, poi li consegnai al personale di guardia all’aerofono. Il comandante dette ordine di andare ai pezzi ed in tutto non eravamo che una quindicina di persone, perché il rimanente se l’era squagliata. In tutti i casi, aprimmo il fuoco con tre cannoni e riuscimmo ad affondare un caccia, il piroscafo ed una decina di mezzi da sbarco. A mezzanotte, il porto di Piombino ardeva e per diverse ore e sempre si combatteva, perché i marinai tedeschi si erano asserragliati nel ricovero antiaereo del porto e di lì, con le armi automatiche, sostenevano il combattimento. La mattina seguente, il comandante
telefonò al comando DICAT, spiegando ogni cosa e chiedendo di mandare i carri armati per farla finita… ma dal comando DICAT, dopo promesse, non si otetnne nulla e verso le dieci del mattino, il comandante ritelefonò, dicendo che se non avessero mandato per le undici i carri armati, sarebbe andato lui con i suoi uomini e che avrebbe portato tutti i tedeschi prigionieri al Comando. Di fatto, scoccarono le 11 e nulla si era ottenuto. In batteria non eravamo rimasti che 9 marinai, 2 sottufficiali ed il comandante quindi l’impresa era abbastanza rischiosa… ma noi l’intraprendemmo. Dietro ordine, ci caricammo il petto di bombe a mano e andammo all’attacco. Ad un certo punto, intravedemmo dietro un cespuglio un berrettino tedesco ed io lanciai una bomba a mano e di lì sortirono ben dieci marinai tedeschi che disarmammo subito. Ci portammo al di sopra del ricovero e incominciammo a buttar giù le bombe a mano, a quattro a quattro per ogni uomo, in modo che scoppiavano contemporaneamente 44 bombe a mano. A quel fracasso, dopo la terza scarica di bombe, i tedeschi cacciarono fuori un bastone con uno straccio bianco e il comandante parlò, nascondendosi dietro un ufficiale tedesco, dicendo che avrebbe mandato giù un sottufficiale con due marinai per disarmarli, man mano che sarebbero venuti fuori: così, andai io con due marinai a disarmarli. Erano diverse centinaia di tedeschi fatti prigionieri da noi - undici, in tutto – e quando ci videro rimasero bocca aperta. Di lì a poco venne il comandante del DICAT, Bagarini, il quale parlò con un maggiore tedesco e vidi che, dopo, tutti si imbarcarono sui mezzi disponibili e presero il largo. Noi rimanemmo in batteria ed il comandante stilò la relazione, citando noi due sottufficiali ed i nove marinai “superiori ad ogni encomio”. La mattina alle 5, mentre dormivamo sull’erba, vennero a mitragliare la batteria alcune motosiluranti tedesche e noi rispondemmo al fuoco. Il comandante telefonò al comando DICAT ma invano: TUTTI SE L’ERANO SQUAGLIATA, senza neanche avvisarci. Il comandante, quasi con le lacrime agli occhi, capì l’impossibilità di continuare a resistere, perché in pochi ed anche perché i tedeschi avanzavano dal mare e da terra quindi dette ordine di abbandonare la batteria. Ci distribuì viveri ed a me dette cento lire, perché ero privo di soldi, così abbandonai Piombino, diretto verso Pola, a piedi, perché qui c’era Maria con Loredana (moglie e figlioletta) prive di ogni risorsa ed in più Nini (il cognato) invalido di guerra e ammalato. Dopo ben quattordici giorni, quando stavo già per raggiungere Pola, a Degnano fui preso dai tedeschi. Presentai loro i miei docuenti e cercai di fargli capire che non ero un partigiano. Ero in condizioni pietosissime, i piedi li avevo laceri e sanguinanti e riuscii ad andare a casa per un mese. Allo scadere del mese non mi presentai. Verso la metà di ottobre fecero il censimento degli uomini e dovetti presentarmi… e lì, sfortuna volle, incontrai proprio un maresciallo tedesco che mi aveva preso a Degnano, il quale mi riconobbe e voleva farmi subito vestire tedesco. Parlava molto bene l’italiano ed io gli spiegai che ero in condizioni familiari disastrose e ottenni di indossare la divisa di Marina italiana e così fui inviato al battaglione Marina, formatosi l’8 settembre. Al dicembre del ’43 mi mandarono a Lussino con trenta marinai, a Monte Asino, batteria tedesca. Riuscii ad andare a Pola dopo 18 giorni, perché mi presentai al comandante e gli dissi che io non ero pratico di cannoni e che non ero all’altezza di… nulla. Così, lui mi mandò al mio comando di Pola. Ebbi un arronzone dal comandante, con la minaccia che se non avessi fatto il mio dovere, mi avrebbero mandato in Germania. Continuavo sempre a fare i miei comodi, cercando di scansare il campo di concentramento. Ebbi, dopo un anno, delle note caratteristiche, così compilate: “carattere apatico, inservibile sotto tutti i punti di vista, mediocre”. Ogniqualvolta si doveva uscire, per rastrellare i partigiani, io ero sempre ammalato, in modo che non ho mai preso parte a rastrellamenti. Per punizione, mi mandarono al comando Marina, dove il comandante Baccarini, capitano di corvetta, mi fece un altro arronzone, dicendo che se non avessi fatto il mio dovere, mi avrebbe denunciato alle SS, per l’internamento in Germania. Andai in missione a Vicenza e ritornai a Pola dopo 50 giorni… e il comandante mi disse che voleva dichiararmi disertore – ritornai con la famiglia che, allora, avevo sfollata in Asiago, perché Pinuccio (il secondo figlio, neonato) stava poco bene ed a Loredana non confaceva quell’aria – poi, il 31 gennaio, morì Pinuccio ed io lo feci presente al comandante e dissi pure che, date le condizioni della mia famiglia, io avevo bisogno di essere sempre a casa. Lui, stufo del mio modo di procedere, mi mandò via per selezionamento e scrisse una nota al Ministero, dicendo che io avevo preso parte ai combattimenti contro i tedeschi, l’8 settembre, e che ero un sottufficiale di scarsissimo rendimento e da espellere dalla marina repubblicana. Così, il 7 marzo del ’45 ottenni il congedo e il 27, con un foglio di viaggio falsificato, potei sfollare con la famiglia a Capodistria, levandomi dai pericoli delle ricerche delle SS. Il mio comandante in batteria era il capitano dell’esercito AVV. Andrea Magarini, abitante in via Valdarno a Firenze. Lui potrà testimoniare quanto io feci a Piombino, elogiandomi.
Giovambattista Salvadore(n. 15.06.'915 - m. 10.05.'974)