La voce di Megaride

Partecipazione del Comitato Bruno Contrada al Forum de L'Opinione


di seguito pubblichiamo la relazione a cura del Comitato Bruno Contrada, presentata stamane nell'ambito dell'affollato Forum delle associazioni liberali del centro-destra presso la sede romana de L'Opinione in via del Corso, a cura della signora Maria Venera, portavoce e membro attivo del Comitato BRUNO CONTRADA Napoli. Si precisa, avendo preso visione di alcune imprecisioni su comunicato-stampa, che la suddetta relazione è stata stilata dal Comitato Bruno Contrada e non è assolutamente dichiarazione autografa del nostro beniamino, come erroneamente riportato da alcune fonti, dal momento che  il prefetto Contrada è ristretto ai domiciliari e non è in grado di rilasciare dichiarazioni di sorta a chicchessia.Impiegherò il breve spazio di tempo che mi è concesso per ricordare e trattare, sia pure in modo conciso e sintetico, uno dei casi giudiziari più eclatanti e inquietanti che ha occupato le cronache giudiziarie negli ultimi venti anni: la vicenda CONTRADA. BRUNO CONTRADA, nato a Napoli il 2 settembre 1931, uomo dello Stato che lo Stato ha servito in tutta la sua vita. Ufficiale dei Bersaglieri a ventenni. Funzionario di Polizia nei cui ranghi ha percorso la carriera dal grado iniziale di vice commissario a quello finale di Dirigente generale. Negli ultimi dieci anni di
servizio, dal 1982 al 1992, funzionario del Servizio Informazioni per la Sicurezza Democratica (S.I.S.D.E.), raggiungendo nell’organismo il grado di v.capo reparto. Nella sua lunga carriera ha ricoperto in Sicilia e a Roma impegnativi, prestigiosi ed elevati incarichi: 14 anni alla Squadra Mobile di Palermo, dal 1962 al 1976; quale dirigente delle sezioni “volante”, “catturandi”, “investigativa”, “antimafia” e, infine – negli ultimi 4 anni – dirigente della Squadra Mobile. Poi, sei anni, dal 1976 al 1982, capo del Centro Criminalpol per la Sicilia Occidentale. Successivamente, dal 1982 al 1986, Capo di Gabinetto dell’Alto Commissariato per la lotta alla mafia e contemporaneamente coordinatore dei Centri S.I.S.D.E. della Sicilia. Infine, dal 1986 al 1992, a Roma, alla Direzione del SISDE, con alti incarichi nei settori operativi. Nell’espletamento degli uffici ricoperti ha compiuto infinite e rilevanti operazioni di polizia, specie nel campo della lotta alla mafia. Ha conseguito innumerevoli riconoscimenti dai vertici dell’Amministrazione per i risultati conseguiti: 60 circa dalla Polizia e quasi 100 dal SISDE. Si è occupato, con totale dedizione, abnegazione, spirito di sacrificio, elevata professionalità, gravi pericoli di vita, dei crimini più eclatanti, cruenti e terribili perpetrati dalla organizzazione criminale mafiosa siciliana. Ha riscosso sempre il plauso, l’elogio, l’apprezzamento, la fiducia incondizionata dei vertici degli organismi di polizia e di sicurezza nell’ambito dei quali aveva operato, nonché l’ammirazione dei colleghi e dei subordinati. Ha perseguito per oltre trenta anni, in situazioni difficilissime, tutte le più sanguinarie e agguerrite “famiglie” di mafia di Palermo e provincia, responsabili di innumerevoli, orrendi delitti. Con rigore e inflessibilità ha lottato contro la mafia e i mafiosi, affrontando pericoli di ogni genere. Ciò si evince in modo certo e inequivocabile dai suoi fascicoli personali del Ministero dell’Interno, della Questura di Palermo, del S.I.S.D.E., dell’Alto Commissariato. Alla fine del 1992, mentre era nel pieno della sua attività professionale e al culmine della carriera, nel momento in cui si aprivano per lui prospettive di più prestigiosi ed elevati incarichi negli apparati istituzionali, venne arrestato (alla vigilia di Natale del 1992) su richiesta della Procura della Repubblica di Palermo con motivazioni basate su accuse manifestamente calunniose di un nugolo di criminali mafiosi pentiti. A questi, poi, si aggiungevano altri “pendagli da forca” che barattarono la libertà, l’impunità, il danaro con altre calunnie. Tutti delinquenti della peggiore risma, mossi anche dall’odio verso il poliziotto che li aveva perseguiti con denunzie e arresti o che aveva perseguito i loro parenti. E affiliati alle rispettive “cosche” mafiose. Calunnie infondate e assurde, senza alcun riscontro, senza alcuna prova. Molte di siffatte accuse sono cadute miseramente nel corso dei successivi processi per la incontrovertibile assurdità e talvolta assoluta “ridicolaggine”. Ma la cosa più grave e inconcepibile non è che dei criminali responsabili dei più efferati delitti si siano determinati a vomitare con pedissequo adeguamento e certi della impunità accuse del tutto assurde contro il poliziotto Contrada, loro acerrimo nemico, ma che ci siano stati dei magistrati che tali accuse hanno poi posto a fondamento del processo e successiva condanna. Non certo tutti hanno però avuto siffatto comportamento. Infatti, c’è stata
una Corte di Appello, quella presieduta dal dott. Agnello (la II Sez. della Corte di Appello di Palermo) che ha ribaltato la sentenza di condanna del Tribunale, assolvendo con la formula più ampia (perché il fatto non sussiste) il dott. Contrada. Sentenza assolutoria del 4.5.2001. Ma poi la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza e si è quindi celebrato un altro processo di appello che sulla base dello stesso inconsistente materiale probatorio ha condannato il funzionario. Ma nel nostro ordinamento giuridico non esiste il principio che la condanna deve essere irrogata soltanto quando la colpevolezza risulta “al di là di ogni ragionevole dubbio”? E quale dubbio è più ragionevole del fatto che la stessa Corte di Appello – quella di Palermo -  prima sentenzia: “quell’uomo è innocente e deve essere assolto” e dopo sentenzia. “quell’uomo è colpevole e deve essere condannato”? E’ vero che a giudicare sono stati due collegi diversi ma sempre della stessa Corte di Appello. Come si spiegano e si giustificano due sentenze così contrastanti? Come si spiega poi che i criminali pentiti in un processo siano ritenuti credibili ed attendibili e in un altro processo no? Come si fa poi a provare che siffatti criminali per apparire veritieri abbiano tra loro concordato le accuse onde realizzare la cosiddetta “convergenza molteplice” che, indipendentemente dai riscontri oggettivi, diventano di per se’ prova della colpa? Quale possibilità ha l’imputato innocente di difendersi, dimostrando che gli accusatori hanno concordato le accuse? Nessuna! Ecco perché sarebbe necessaria la costituzione di una Commissione parlamentare che indaghi sulla Gestione dei Pentiti. Non è possibile che la vita e la libertà degli uomini sia affidata alla parola di turpi individui che, non avendo avuto alcuna remora a commettere le più orrende azioni criminali che hanno fatto inorridire il Paese, abbiano poi scrupolo ad accusare falsamente e calunniosamente un innocente! Il pentito è l’arma più pericolosa che la Giustizia maneggia e tale arma dovrebbe essere utilizzata soltanto da uomini dotati di alta professionalità, rigore morale e profonda coscienza. Nel processo di Contrada sono stati creduti soltanto i criminali pentiti che, per la maggior parte, hanno riferito fatti e circostanze di cui non avevano cognizione diretta e personale ma che, a loro dire, avevano saputo “da relato” cioè da altri. Altri, nella quasi totalità morti, e pertanto non in grado di confermare o smentire. Perché sono stati creduti solo i malfattori e nessuna rilevanza è stata data alle innumerevoli testimonianze a favore, di integerrimi uomini delle Istituzioni ricoprenti incarichi di alta responsabilità? Al processo Contrada hanno testimoniato a favore Capi della Polizia, Alti Commissari, Direttori Generali dei Servizi, Prefetti, Questori, Generali ed Alti Ufficiali dei Carabinieri, Generale e Alti Ufficiali della G.d.F., Funzionari di Polizia, della Prefettura e dell’Alto
Commissariato, Magistrati, eccetera… Tutti collusi, anche loro, con la mafia, forse? A loro non è stato dato alcun credito, le loro testimonianze sono state disattese, non sono stati ritenuti credibili, attendibili, veritieri! E tutto l’operato trentennale contro la mafia che il dott. Contrada ha opposto “e provato” di aver posto in essere  Quale rilevanza ha avuto? Nessuna. E perché il Dott. Contrada avrebbe favorito la mafia? La sentenza di condanna non l’ha detto, non l’ha indicato. Si è limitata a dire che non c’era nessuna necessità di specificarlo. E ciò perché non poteva asserire che l’avesse fatto per denaro o per paura o per condizionamento familiare o ambientale o per qualsiasi altro motivo. Da tutte le risultanze processuali infatti il Dott. Contrada è risultato essere un funzionario onesto, di modeste condizioni economiche, coraggioso ed incurante del pericolo, senza alcun condizionamento personale, familiare o ambientale.Infine, per concludere. Per quale reato il Dott. Contrada è stato condannato con la devastazione
della sua vita e quella della sua famiglia? Per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Reato che non esiste nel nostro codice penale. Nel nostro codice esiste il reato di cui all’art. 416 bis, cioè l’associazione per delinquere mafiosa puramente e semplicemente. Associazione di cui fai parte o non fai parte. Anche questo argomento dovrà essere oggetto di approfondito esame in una auspicabile riforma della giustizia che dovrà necessariamente essere attuata se vogliamo che il nostro sia uno Stato di diritto a pieno titolo. Noi del Comitato Bruno Contrada chiediamo la revisione del Processo e la Piena Riabilitazione di Bruno Contrada!Grazie, per la vostra calda accoglienza e condivisione.  Il Comitato “Bruno Contrada” Napoli