RACCONTI & OPINIONI

Michela Murgia, la vincitrice del Campiello con "Accabadora" ha debuttato raccontando i precari


la nuova letteratura italiana  che nasce nei call center  Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, pubblicato nel 2006 da Aldo Nove nella collana Stile Libero di Einaudi è una delle prime traccie significative di quel nuovo romanzo del lavoro che racconta in realtà il lavoro che non c'è più o che, quando c'è, è spesso un'odissea fatta di orari assurdi, paghe da fame e zero diritti. Nove, rivelatosi a metà degli anni Novanta con il romanzo Woobinda, uscito per Castelvecchi, e con un racconto compreso nell'antologia Gioventù cannibale, aveva costruito attraverso una serie di interviste, a giovani come a non più giovanissimi, il ritratto di quei nuovi italiani cui la deregulation abbattutatisi sui contratti di lavoro e sulle "regole del gioco" ha imposto un futuro senza sogni e senza benessere. «Quarantenni narcotizzati da una quotidianità sovrastante», come spiegava Nove, nel raccontare la geografia incerta dei precari a vita, di adulti mantenuti a forza in una sorta di eterna gioventù, priva di certezza e di prospettive. C'era di tutto in quell'inchiesta estrema condotta con rigore narrativo: dal nord al sud del paese, lavoratori di Internet, stagisti a vita, guide part-time nei musei, interinali, camerieri che sognano di fare gli avvocati, pastori a mezzo tempo, operai che guadagnano sempre meno. Una galleria di storie vere e di personaggi che raccontano attraverso le pagine di Aldo Nove le loro vite flessibili e quel che resta dei loro sogni: «Mi chiamo Carlo, sono di Caltagirone, mi rompo il culo a lavorare diciotto ore al giorno, ma c'è gente che anche volendo non può farlo, perché lavoro non ce n'è».Sempre nel 2006 Andrea Bajani pubblicava, ancora una volta per Einaudi, la sua "Guida di viaggio per lavoratori flessibili" dal titolo ironico ma terribile di Mi spezzo ma non m'impiego. Romano, classe 1975, da tempo trapiantato a Torino, Bajani è un coetaneo di quei trentenni «ex co.co.co, i neo co.pro, le Partite Iva, gli interinali, i tempi determinati», di cui racconta le peripezie tra ogni sorta di lavoro e di contratto atipico. Dopo aver passato in rassegna tutte le nuove modalità dello sfruttamento, attraverso le mille forme assunte dal "contratto", lo scrittore racconta come Nove una serie di vite di precari: dai telefonisti dei call center ai grafici free lance, passando per gli addetti alla grande distribuzione e alle imprese di pulizia. Sullo sfondo, l'idea che ad essere stravolti non siano stati soltanto i diritti dei lavoratori, ma la stessa idea che una società ha del lavoro. «La Legge 30 - spiega infatti Bajani - lo dice molto chiaramente: lavoratore è "qualsiasi persona che lavora o che è in cerca di lavoro". E' un lavoratore anche chi il lavoro non ce l'ha (...) Basta mettersi in strada a cercare un impiego che già la disoccupazione è finita (...) è un principio molto semplice: basta cambiare i nomi alle cose e le cose non esistono più. Basta cambiare il nome alla disoccupazione, e la disoccupazione finisce».Se Nove e Bajani hanno contribuito a raccontare le condizioni di vita e di lavoro della "generazione precaria", il volume collettivo pubblicato nel 2005 dalla Manifestolibri, Precariopoli. Parole e pratiche delle nuove lotte sul lavoro, descrive fin dal titolo l'orizzonte dei nuovi conflitti sorti intorno ai "nuovi lavori". Si va così dalle mobilitazioni dei ricercatori precari dell'università alle condizioni di lavoro dei giovani operai di Melfi, alla ricerca di quelle «forme dell'agire politico e sociale, pratiche di partecipazione, di democrazia e insubordinazione» che caratterizzano anche l'era della "fine del lavoro".Infine, in Io non lavoro, scritto da Serena Bortone e Mariano Cirino e uscito per Neri Pozza nel 2010, si assiste a un completo capovolgimento del significato che si attribuisce abitualmente al termine di "precarietà". Nessuno dei personaggi raccontati nel libro ha infatti mai voluto lavorare, e prima o poi ce l'ha fatta. In questo caso l'assenza di certezze fa il paio con una sorta di fuga dalla realtà, con la ricerca di una "svolta" esistenziale che non costi troppa fatica e avvicini la felicità: si direbbe quasi l'eccezione che conferma la regola di una precarietà che è invece troppo spesso una condizione completamente subita.  01/05/2011www.liberazione.it