RACCONTI & OPINIONI

"Felici e sfruttati" di Carlo Formenti è una puntule critica delle ideologie liberiste applicate a Internet


Gli stregoni della Rete  È un Carlo Formenti volutamente polemico quello di Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro (Egea, pp. 149 euro 18). In un misto di indignazione e di irritazione, con un linguaggio sarcastico, diretto e assertivo, l'autore si scaglia contro la faccia tosta dei guru della New economy, il cinismo dei retorici della wikinomics e l'illusione delle utopie egualitarie del web. La furia distruttiva travolge studiosi come Lawrence Lessig, Yochai Benkler e Manuel Castells. I loro discorsi sulla cooperazione spontanea, sull'attenuazione della proprietà intellettuale, sull'esaltazione dell'etica hacker e del software libero, non farebbero altro che spianare la strada a un nuovo tipo di capitalismo digitale, all'origine del più colossale processo di concentrazione monopolistica della storia del capitalismo. Come tutte le rivoluzioni tecnologiche, anche quella digitale ha illuso progressisti e libertari nella sua portata emancipatrice, nella sua possibilità di fondare un nuovo modo di produzione postcapitalistico. Ma la crisi della New Economy del 2001, la conseguente ristrutturazione del settore e lo tsunami dei subprime del 2008 hanno, secondo l'autore, definitivamente stroncato le ambizioni di una «classe creativa» che il sociologo americano Richard Florida vedeva come destinata a guidare una società fondata sul rifiuto delle gerarchie, sulla tolleranza e sulla valorizzazione del talento. Al contrario, le tecnologie digitali, lungi dal favorire una liberazione del lavoro dal rapporto di produzione capitalistico, sarebbero all'origine di incrementi di produttività soprattutto nel campo del lavoro creativo, dove il software progressivamente sta sostituiendo e rendendo obsoleto il lavoro umano anche nelle mansioni di progettazione, gestione e controllo. Sommando a questa le tendenze alla delocalizzazione di lavoro qualificato verso paesi in via di sviluppo, ne emerge un quadro che vede l'Occidente industrializzato privo di vettori strutturali in grado di creare buona occupazione. Resta un lavoro frammentato e precarizzato, che difficilmente potrà essere attraversato da una coscienza in grado di organizzarlo come classe. Anzi, il lavoratore della conoscenza tende ad essere insofferente verso un richiamo a dotarsi di strumenti di lotta collettivi, preferendo un percorso individuale di esodo dal lavoro salariato verso forme di lavoro autonomo di seconda generazione. Un mutamento che vede la sinistra tradizionale in grande ritardo. Il lavoro del prosumer A partire dalla condivisone della loro analisi sul rifiuto del lavoro, Formenti si confronta anche con le teorie neo-operaiste, incentrate sulla reinterpretazione del celebre frammento sulle macchine dei Grundrisse. Reinterpretando il Marx del primo libro de il Capitale e in particolare del capitolo VI inedito, per Formenti proprio le tecnologie di rete applicate alla produzione di conoscenze sono all'origine di una nuova forma di taylorismo digitale, destinato a sottomettere il lavoro vivo al dominio di macchine e algoritmi. È vero - riconosce Formenti - che la rete ha favorito la nascita di nuove forme di cooperazione sociale per la produzione di beni non commerciali, ma è altrettanto vero che il capitale le usa per appropriarsi sistematicamente di risorse che in precedenza godevano dello statuto di commons immateriali, sottratti al dominio del mercato, oltre che per sfruttare il lavoro gratuito di milioni di prosumers connessi via Internet. (il prosumer è un neologismo usato per indicare quei consumatori che partecipano attivamente alla definizione dei limiti di un manufatto digitale, fornendo idee per superarli e attivando così virtuosi, e gratuiti per le imprese, meccanismi di innovazione). Ma sbagliano anche i teorici neo-operaisti quando, animati da un'incrollabile, cieca fiducia nella capacità della moltitudine di inventare sempre nuove forme di auto-organizzazione democratica, finiscono paradossalmente per convergere con gli entusiasmi utopistici dei guru del Web 2.0. Arrivano i cinesi L'inadeguatezza del pensiero neo-operaista si manifesterebbe nell'incapacità di passare dall'analisi dei meccanismi della nuova economia all'analisi della composizione di classe, avendola abbandonata per adottare una visione metafisica dell'opposizione tra capitale e vita. Quella di moltitudine sarebbe quindi una categoria priva di consistenza, astrazione senza carne né sangue, che celerebbe l'incapacità di rispondere alla questione dell'organizzazione. Eppure, a partire dalle email inviate dal movimento zapatista nel lontano 1994, passando per l'organizzazione dei movimenti di Seattle, dei Social Forum globali, dei movimenti studenteschi e giovanili, per finire con le recenti sollevazioni che hanno incendiato Nord Africa e Vicino Oriente, le nuove tecnologie di comunicazione si sono dimostrate un formidabile mezzo capace di potenziare processi organizzativi dal basso. Queste considerazioni non bastano al martello pneumatico di Formenti che avanza demolendo ogni fragile speranza di cambiamento, definitivamente affondata da un pessimismo strutturale che arriva a individuare una complicità culturale fra movimenti e discorso del capitalista. È proprio la cultura dei movimenti che avrebbe aperto la strada a nuove modalità di accumulazione capitalistica fondate sulla produzione di emozioni ed esperienze, plasmando al contempo un materiale umano che si presta alla selezione di élite innovative. L'unico bagliore in grado di illuminare una notte buia e gelida sembrerebbe provenire dai paesi emergenti come la Cina, dove potrebbe aprirsi un nuovo ciclo di lotte fondato sulla convergenza di interessi tra neoproletariato industriale, classe creativa e migranti. Non resta quindi che attendere sulla riva del fiume, armati di cinese pazienza.Robert Castrucci27/05/2011 Fonte: il manifesto