RACCONTI & OPINIONI

L'ultimo terrestre. In sala il film esordiente. Intervista al regista; e fumettista, Pacinotti


«Racconto la nostra società senza speranza» Non chiamatelo Gipi. Non per snobismo, sia chiaro, ma per sentimentalismo e voglia di differenziare la sua attività da fumettista da quella di regista. Il motivo sentimentale per cui l'autore de La mia vita disegnata male (se volete conoscerlo meglio, la Coconino ha pubblicato il suo Omnibus) qui si firma come Gian Alfonso Pacinotti è la Super 8 regalatagli dal padre, il suo primo sguardo sul mondo. Ha raccolto applausi meritati con il coraggioso L'ultimo terrestre, in sala da domani, quest'esordiente che racconta l'avvento di un'invasione aliena in un'Italia decaduta e decadente. Non è un film di fantascienza, il futuro ha gli stessi volti del presente, anche in tv, e siamo solo qualche anno avanti rispetto al 2011. La disillusione e il cinismo scatenano solo reazioni opportuniste a questo evento: il misticismo, il razzismo, lo sfruttamento, l'indifferenza egoista. Eppure proprio nell'uomo più inadatto alla vita e all'amore, scatenano qualcosa. Un'opera ambiziosa e originale quella di Pacinotti, in cui ogni scelta- dalla fotografia alla musica, dalla narrazione al cast- è decisa e anticonformista e sempre al servizio del film. Gabriele Spinelli si rivela attore da Coppa Volpi e L'ultimo terrestre il miglior film italiano della 68. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, uno dei più belli degli ultimi anni e, a nostro parere, potrebbe, anzi dovrebbe essere un possibile Leone d'Oro. Il regista "fumettaro" sembra non curarsene: come i suoi personaggi sembra disorientato da Venezia. Ma si racconta con generosità. Colpisce immediatamente la scommessa ambiziosa che rappresenta questo film, dallo stile originale al cast sconosciuto Non volevo volti che richiamassero altro o altri, desideravo personaggi che sembrassero nati per questa storia. Non conosco molto il cinema italiano, ma so che cercavo figure che avessero uno spessore che interessava a me, al di là del richiamo che poteva avere il nome conosciuto sul pubblico.  Marjane Satrapi va al cinema e finisce per disegnare i suoi fumetti sul grande schermo. Tu fai tutt'altro rispetto al tuo lavoro sulle tavole. Come mai questa dicotomia?Io non mi sono mai definito un appassionato di fumetto, ma un appassionato della narrazione delle storie. Fin da ragazzino ho sognato il cinema, quello è stato il mio primo desiderio, non disegnare. Poi un po' per il mio carattere, un po' per com'è andata la mia vita, mi son trovato a fare altro, a costruire il mio microcinema con i racconti a fumetti. Sono due mezzi di racconto troppo differenti, non ci trovo nulla di strano nella diversità dei due stili: ho trovato forse qualche similitudine con le mie prime storie su Blu, quando ero ancora timido e non rompevo certi schemi collaudati. Disegnando, c'ho messo vent'anni per farlo. Ecco, rivedendo quelle tavole, ho capito che certe inquadrature l'avevo già tratteggiate. Nel cinema, infine, c'è tutto ciò per cui ho studiato e che mi piace: la musica, il suono, il rapporto umano che dopo tanti anni di inevitabile lavoro solitario, mi mancava molto. Il film è bellissimo e molto originale, ma ogni tanto si vede Lynch nella tua regia o il Sellers di Oltre il giardino in Gabriele Spinelli. Sbaglio?Non te lo so dire, di sicuro a Gabriele non ho indicato riferimenti, ma so, per esempio, che Lynch lo amo. Quando vidi da giovanissimo Eraserhead pensai che fosse la cosa più bella che avessi mai visto. Quando facevo i miei corti a Pisa, mi veniva da fare i rumori con la bocca che imitivano le colonne sonore dei suoi film. Ma non sono un cinefilo, sono un ignorante che neanche del suo autore preferito ha visto tutto. Ignorante come lo ero quando inizai col fumetto. Certo, ho degli amori di formazione, delle ispirazioni naturali. Come ha resistito alla tentazione dell'esordiente di strafare?Io ho grossi problemi con l'ego: ne sono pieno, ma lo disprezzo e lo combatto. Ecco perché già in scrittura ho tagliato come un matto tutto ciò che non sembrava funzionale alla storia. Ci sono cascato lo stesso sul set: rivedendomi, ho tagliato scene intere con un furore che stupiva anche il mio montatore Clelio Benevento. La parte in cui "ci si fa le pippe", in cui ci si parla addosso, credo d'averla persa 10-15 anni fa. E' la fortuna d'arrivare maturo al cinema, già vaccinato dal mio lavoro precedente. C'ho un'età, ora so che per me conta solo la storia. E poi ho due paure enormi: essere fasullo e annoiare il pubblico.  Sento questo film anche come profondamente politico. Lei come lo vede?Temo che sarei politico anche scrivendo la lista della spesa. E qui racconto la mia società senza rincorrere la contemporaneità, estremizzando certi atteggiamenti umani e gli scollamenti dell'etica. Solo in questo modo puoi raccontare un mondo arrivato ormai a livelli di assurdità incredibili. Non trovo utile lamentarsi di una classe politica di farabutti, mi interessa molto di più mostrare la società prodotta da questa classe dirigente. Una società ormai senza prospettive e visioni, tanto che l'unica speranza è disperata e puerile, l'avvento quasi mistico degli alieni, che poi è la grande intuizione che ha avuto Giacomo Monti in Nessuno mi farà del male (ed. Canonica), il graphic novel da cui è tratto il film. Boris Sollazzo09/09/2011www.liberazione.it