RACCONTI & OPINIONI

Un'idea partorita nel movimento "Imprese che resistono", nato nel 2009 quando è iniziata la mancanza di lavoro


Se fallire è come morire L'iniziativa nazionale di artigiani, commercianti e micro impresari per aiutare, con i professionisti della psiche, chi soccombe alla catastrofe economica ma anche al paradigma culturale che identifica l'insuccesso con l'incapacitàGli ultimi, in ordine cronologico, si sono suicidati ieri a Roma e ad Atene. Erano un impresario e un anziano, che con modalità diverse hanno messo fine ai loro tormenti. La crisi uccide, ma questa non è una novità. Succede però in questi anni di inizio millennio di veder soccombere non solo le fasce "deboli" della società, tradizionalmente carne da macello in tempi di recessione, ma perfino i piccoli imprenditori, strozzati dalle difficoltà economiche e anche affogati in un paradigma culturale completamente sfasato dalla realtà. Secondo la Cgia di Mestre, tra il 2008 e il 2010 in Italia i suicidi per motivi economici sono aumentati del 24,6%, e i tentativi del 20%. Una lunga scia di disperazione che ormai ha raggiunto livelli emergenziali, tanto che in regioni come il Veneto si sta approntando un fondo di solidarietà per artigiani, piccoli commercianti e micro imprese in crisi. Ma l'aiuto economico non basta più, occorre un sostegno morale, un coacher - per usare un linguaggio più in voga - dello spirito. Ecco quindi che dall'inizio dell'anno un piccolo imprenditore di Besnate (Varese) ha pensato bene di chiedere aiuto ai professionisti della psiche. E ha messo su una rete di psicologi volontari, disponibili in tutta Italia, che prestano un primo soccorso telefonico gratuito a chi si sente schiacciato dalla responsabilità del fallimento di un'intera impresa e dal crollo di molte famiglie. Anche la Caritas a Montebelluna (Treviso) ha aperto uno sportello del genere, ma «Terraferma» (www.terraferma-icr.it) è la prima iniziativa del genere, senza finanziamenti e con finalità esclusivamente solidaristiche, a livello nazionale. Anche se opera principalmente in Lombardia, in Liguria e soprattutto in Veneto, dove negli ultimi anni si è registrato il numero più alto di tentativi di suicidio da parte dei piccoli e micro imprenditori. «Un'idea partorita durante gli incontri del movimento "Imprese che resistono", nato nel 2009 quando la mancanza di lavoro cominciava a mordere e a lacerare», racconta Massimo Mazzucchelli, l'uomo che da Besnate ha messo su la rete di aiuto psicologico. Già allora mancanza di liquidità a causa dei pagamenti in ritardo, difficoltà di accesso al credito e aumento del rischio d'impresa costituivano un circolo vizioso inestricabile. «Dopo il tonfo del 2009 c'è stata un piccola risalita soprattutto per le imprese esportatrici ma oggi, a tre anni di distanza, quella crisi torna peggiore di prima - continua Mazzucchelli -. Si muore strozzati da tutti quei soggetti che chiedono, chiedono, ma non aiutano mai: banche, fisco, Equitalia...». Parliamo di imprese familiari o con con pochi dipendenti, una decina, quindici al massimo. Si tratta, per esempio, di artigiani che da dipendenti di grosse aziende si sono messi in proprio, spesso spinti dalla politica di esternalizzazione delle stesse industrie. «Le piccole imprese si sono strutturate appositamente sulla domanda del mercato che richiedeva piccole quantità di certi prodotti ma ad elevata qualità. Ora, con il mercato globalizzato, si cerca di spingere queste aziende a diventare grandi, senza capire che di qualità ce n'è ancora bisogno». Mazzucchelli racconta della sua impresa, con 16 dipendenti, «in cui lavorano amici d'infanzia, intere famiglie, vicini di casa, personale che ormai costituisce una grande famiglia allargata». Non ce la farebbe mai a licenziare, giura, «anche perché in un'azienda così piccola fare a meno di due o tre persone significa mettere in crisi tutta la catena produttiva; vuol dire chiudere». «Piuttosto - aggiunge - io come altri imprenditori, anche non vincolati dall'articolo 18, abbiamo rinunciato ai nostri compensi e abbiamo investito soldi personali».Ma quando si eredita un'impresa familiare, magari di successo, quando nell'azienda lavorano zie e cugini, amici e parenti, il fallimento non è solo un problema economico. «Diventa un dramma esistenziale - spiega la dottoressa Isabella Brusa, tra i coordinatori del progetto Terraferma e psicologa a Milano e Varese - che coinvolge aspetti più personali, culturali, identitari, psicologici. La crisi viene vissuta con colpevolizzazione e vergogna, come sintomo di un'incapacità personale». Gli uomini si chiudono quasi sempre in se stessi, le donne meno. E sono spesso le mogli a chiedere aiuto per i mariti. D'altronde, come testimonia Mazzucchelli, «il mondo dell'imprenditore e quello degli psicologi sono lontani anni luce». Abituati a «farsi da sé», a risolvere problemi, gli impresari fanno fatica a cambiare paradigma culturale. Eppure tra le decine di persone che hanno chiesto aiuto a Terraferma, molti hanno cominciato un percorso di sostegno psicologico più strutturato. «A volte però questi piccoli imprenditori sono davvero soli - continua Brusa - perché gli stessi familiari, gli stessi figli, vivono il fallimento come un indice di incapacità del genitore che non può più garantire lo stesso stile di vita». «Il suicidio, ma anche altri gesti estremi che nascono dalla disperazione, sono dovuti all'isolamento - conclude Mazzucchelli - ma con le nostre iniziative vorremmo aiutare gli imprenditori a cambiare mentalità, a capire che non ci si può identificare sempre e comunque con la propria azienda». D'altronde, come fa notare la dottoressa Brusa, se il successo personale è nell'accezione comune legato al merito, se il mondo politico e mediatico costruiscono una realtà parallela in cui «chi si rimbocca le maniche può diventare ricco», se passa il messaggio che la crisi non c'è o è facilmente superabile, se «volere è potere» diventa un valore totem di questa società, allora chi fallisce a volte davvero non ha scampo.Eleonora Martini 5/4/2012 www.ilmanifesto.it