RACCONTI & OPINIONI

I fatti e la rivolta di tre anni fa, sono passati invano. La riflessione di un giornalista su caporalato e malagricoltura.


Rosarno, nel nome del silenzioE ci risiamo. Anzi, non siamo mai andati via. Come a Rosarno non è mai andata via la disperazione, rimasta incagliata tra i rami degli aranceti e un silenzio che non si è sgretolato più di tanto, dopo la tensione, gli scontri e la “caccia al nero” del gennaio 2010. Ha resistito, quel silenzio, imperturbabile dinnanzi al suono acuto di una dignità che non poteva più accettare di essere infilzata come fosse burro sotto i fendenti aggressivi di un groviglio di lame arrugginite. Non è servita la resistenza, né le recriminazioni, le proteste, lo sconcerto di un Paese che, ipocritamente, ha recitato, facendo finta di non essere mai stato a conoscenza di ciò che avveniva e avviene nelle campagne italiane, così come in tanti altri settori lavorativi in cui centinaia di migliaia di migranti si trovano incatenati come schiavi, privi di diritti, sicurezza, rispetto. Eppure nelle campagne di Rosarno le cose vanno così da anni. E non solo a Rosarno, ma anche a Castel Volturno, Gioia Tauro, Cassibile, a Latina, a Foggia, a Palagonia, a Vittoria: ovunque. Non ci sono alibi possibili, non ci sono mai stati. Perché è dal 1989, dall’assassinio di Jerry Masslo a Villa Literno che tutti sanno quello che accade e fingono, perché è più comodo guardare un pomodorino e una fragola e credere che quella polpa che vien fuori non c’entri nulla con il sangue di chi li ha raccolti, è più facile pensare che quel succo agro che vien fuori dalla spremitura di un’arancia non sia il sudore di mille fatiche e del calore sputato da una rabbia rinchiusa nell’esigenza di sopravvivere o di sperare di farlo. E quando quella rabbia è esplosa, scagliandosi isolatamente contro un cassonetto, contro una vetrina o un’auto, e manifestandosi in maniera maggioritaria in una pacifica manifestazione per le vie della città, gli italiani hanno avuto perfino il coraggio di rimanere indifferenti o, peggio, di accusare i braccianti di violenza, una violenza che “a loro” non è consentita, perché anche nelle questioni di ordine pubblico contano la razza e l’italianità. La ‘ndrangheta, quella sì, a Rosarno può farsi vedere quando vuole, con le armi in pugno e l’oppressivo cattivo odore del potere mafioso, può dominare, imporre, sparare, far esplodere auto, negozi, così come a Castel Volturno o Casal di Principe la camorra può permettersi di sfilare in automobile con i mitra fuori dai finestrini o uccidere sei persone come fossero mosche, giusto per ribadire al popolo chi è che comanda. E il popolo obbedisce, quasi interamente, nascondendo, dentro i propri calzoni lerci di paura, tutta l’indignazione che con così tanta solerzia scarica ogni giorno sui lavoratori migranti, sotto forma di insulti, epiteti razzisti, pietre, bastoni, impieghi mal pagati, truffe, raggiri, stupri, agguati. Ci è voluta una mezza rivoluzione, fatta dal coraggio dei migranti (“Non possiamo aver paura di chi ci punta una pistola, dopo aver rischiato e subìto di tutto per arrivare qui”, mi disse nel 2010 un cittadino del Gambia che intervistai per RadioRai1) per costringere gli italiani a guardarsi allo specchio. Avevamo sperato, in tanti, che quello specchio fosse talmente impietoso da costringerci a prendere coscienza una volta per tutte. E invece abbiamo sprecato un’occasione, nonostante ci sia stata una procura, quella di Palmi, che pochi mesi dopo ha arrestato per la prima volta non solo i caporali, ma anche i proprietari terrieri, quelli che di solito rimanevano impuniti. Sembrava il momento migliore, quello di svolta. Ma da quel momento su Rosarno è calato il silenzio, complice l’attenzione morbosa dei media per la crisi, per gli ultimi spiragli del governo Berlusconi e la serie imbarazzante di relativi scandali. Se a Rosarno non è cambiato nulla, però, non è solo colpa dei media. La responsabilità principale è di quel governo, in particolare dell’allora ministro dell’Interno, Roberto Maroni, che ha scaricato sui migranti, cioè sulle vittime dello sfruttamento, il peso di una soluzione autoritaria e disumana. Chi ha denunciato ha ricevuto, come consente la legge (e non per un favore del governo), un permesso per motivi giudiziari, gli altri sono stati trasferiti nei centri di permanenza, come quello di Crotone, nuovamente prigionieri di Stato. Il resto è stato lasciato in solitudine, anime in fuga dall’inferno, incazzate il giusto, ma soprattutto stanche. Ragazzi scappati via da Rosarno, di notte, con le ferite in corpo e nel cuore, aiutati da Msf e da pochi volontari, da quelle poche persone che, sole, da anni cercano di dare una mano a questi lavoratori, provando a rendere meno dure condizioni di vita che sono ai limiti del sopportabile. Cancellarli, questo è stato il diktat di Maroni. Cancellare anche i simboli dell’inciviltà e dello sfruttamento perpetrato degli italiani, come si è fatto con la demolizione immediata dell’ex fabbrica Rognetta, sperando in un allontanamento definitivo, in un “mai più qui”, in una rimozione della memoria che è certificato del fallimento di questo Paese sul tema, sulla gestione di un fenomeno che viene vissuto come un problema, ma che problema lo è solo per le vittime, perché per i carnefici e per gli indifferenti è oro che luccica, carne umana e braccia a basso costo, terreno violento e viscido su cui edificare il nostro benessere di plastica e sterco. E poi? Nulla, le solite soluzioni “emergenziali”, che farebbero ridere se non fosse che parliamo di un dramma. Perché l’emergenza non ha alcun senso, linguistico e concettuale, quando qualcosa si ripete da e per anni. Tendopoli, strutture insufficienti, sperimentate in tante zone di agricoltura stagionale, fallimenti annunciati, in barba alle proposte di chi con i migranti condivide tempo e difficoltà quotidiane. Sono tante, infatti, le idee che mettono al centro l’essere umano e la sua dignità. Proposte che richiedono solo ciò che è indispensabile per realizzare alberghi diffusi o strutture che permettano al lavoratore non solo di riposare, ma anche di essere tutelato e di poter svolgere attività ricreative, in un luogo protetto, attraverso cui entrare in contatto con il datore di lavoro in modo legalmente controllato e verificato. Ciò però comporterebbe la rinuncia agli interessi economici di chi lucra sulla pelle dei lavoratori immigrati e soprattutto richiederebbe lungimiranza politica, tolleranza, umanità, caratteristiche che non appartengono agli amministratori della cosa pubblica in questo Paese di “brava gente”, tanto caritatevole con chi è lontano dal proprio vissuto quotidiano o quando si tratta di donare stracci vecchi e roba usata, e poi terribilmente crudele quando l’altro, il “diverso” che bisognerebbe accompagnare camminandovi accanto, si presenta fisicamente, da vicino, divenendo tangibile e, nella mente di molti nostri “bravi cittadini”, ingombrante. Ecco perché oggi si torna a parlare di Rosarno, ed ecco perché è estenuante e lacerante sentir dire sempre le stesse cose, sentir parlare ogni volta di soluzioni tampone, di “emergenza”, dinnanzi a una situazione sempre uguale, annunciata, consueta, drammatica. Tutto questo, mentre coloro che ogni giorno alle parole sterili preferiscono l’impegno e la solidarietà, continuano a sporcarsi le mani sul campo, affrontando le difficoltà pratiche, nella consapevolezza che le cose a breve non cambieranno e che, mentre le parole scorrono, c’è un’umanità che vive e soffre. E trattiene il respiro per non esplodere. Ancora una volta.Massimiliano Perna30/12/2012 www.corriereimmigrazione