RACCONTI & OPINIONI

Oggi una donna che sceglie di abortire si trova spesso nelle condizioni di dover intraprendere un percorso a ostacoli


Legge 194, il diritto negato alle donneIn Italia, il 69 per cento dei ginecologi decide di non praticare l’aborto. Il 65 per cento di questi opera in strutture sanitarie del Nord, il 69 del Centro, e il 77 per cento del Sud. I dati, forniti dal Ministero della Salute, sono soltanto parziali. In Lombardia, ad esempio, indagini sul campo hanno rivelato che la percentuale dei medici obiettori raggiunge l’83 per cento. A 35 anni dall’entrata in vigore della legge 194, che consente e disciplina l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), la sua piena applicazione risulta ancora una chimera. A pagarne le conseguenze sono le donne, la loro salute, il diritto a veder riconosciuta la loro volontà.Il tema sarà affrontato sabato 9 marzo, a Milano, nel corso di un convegno sulla “Legge 194: cosa vogliono le donne” (sala dell’Acquario Civico – via G.B. Gadio 2, ore 14:00), promosso dal Comune cittadino, in collaborazione con l’associazione “Usciamo dal Silenzio”, Libera Università delle Donne e Consultori privati laici.Oggi, nel nostro Paese, una donna che sceglie di abortire si trova spesso nelle condizioni di dover intraprendere un percorso a ostacoli. Il primo passo è rivolgersi a un consultorio, che rilascia una certificazione e indirizza la persona verso quelle aziende ospedaliere che effettuano l’IVG. Formalmente, tutte quelle, sia pubbliche che private, che offrono servizi di ostetricia. Nella realtà, rintracciare una struttura che offra garanzie e accoglienza non è così immediato.Qual è il motivo che spinge così tanti medici a dichiararsi obiettori di coscienza? Sonia Ribera, Segretaria regionale della FP CGIL Medici della Lombardia, spiega che «ci sono colleghi e personale sanitario che obiettano perché sostenuti da forti convinzioni di tipo confessionale. Più in generale, il contesto in cui si opera non aiuta a prendere consapevolezza di come questo intervento sia fondamentale per consentire alle donne di esigere un diritto sancito per legge. Siamo di fronte a un problema culturale serio. L’insieme delle competenze che hanno a che fare con l’interruzione di gravidanza non trova spazio né nel percorso di laurea in medicina, né in quello di specializzazione. Esistono, poi, aspetti legati all’organizzazione del lavoro, che sfavoriscono il medico che pratica l’IVG, il quale si ritrova ad avere oneri superiori ai colleghi obiettori. In Lombardia, chi non obietta rischia di essere danneggiato nel percorso di carriera professionale. Un problema più o meno marcato, a seconda del contesto lavorativo, e dell’orientamento ideologico della direzione aziendale».Nei reparti di ostetricia e ginecologia degli ospedali lombardi, è molto più facile imbattersi in associazioni private di consulenza alle donne legate al Movimento per la Vita, che non in quelle di impostazione laica. Un risultato della gestione Formigoni, cui va inoltre attribuito il taglio delle risorse in favore dei consultori, con il conseguente impoverimento delle loro funzioni.Tutto ciò influisce non solo sulla possibilità o meno di interrompere una gravidanza non desiderata, ma anche di ricevere una prestazione medica adeguata, basata sulla centralità del paziente, «un concetto fondamentale di qualsiasi percorso assistenziale, che viene annullato non appena si varca la soglia dell’interruzione di gravidanza», sottolinea Ribera, «perché nessuno si preoccupa della continuità del servizio, né di supportare la paziente anche per evitare che debba ricorrere nuovamente all’intervento».Siamo di fronte a una situazione critica. Le associazioni che hanno collaborato all’organizzazione del convegno milanese hanno redatto un Manifesto in cui si chiede la costituzione di una commissione d’inchiesta che verifichi i dati ufficiali sull’obiezione di coscienza, al fine di ottenere una migliore conoscenza del fenomeno all’interno del territorio, e intervenire a sostegno delle donne.Chiara Cristilli9/3/2013 www.rassegna.it