RACCONTI & OPINIONI

Si instaura una nuova forma di “americanismo”, una caduta secca di ogni rapporto critico col passato e col presente


 
La morte della critica oggi: tra semplificazione culturale e revisionismo spiccioLe varie forme di “disagio” espresse tra gli studenti e gli stessi docenti all’indomani della prova scritta di “italiano” degli esami di maturità sono la spia, in qualche misura, di un problema di fondo: segnalano, cioè, la difficoltà, per chi ha ricevuto una formazione basata sulla riduzione della cultura, del discorso culturale ad una griglia di “competenze”tecnico-informative e ad una semplificazione descrittiva e astorica, di cimentarsi e di sintonizzarsi in un campo più libero e aperto (come quello deitemi proposti, anche se poi, a ben guardare, non proprio criticamente definiti).  Anche se non sarà così, dico che ciò dovrebbe costituire un’occasione, fra le altre, di riflessione autocritica per la ministra dell’Istruzione Carrozza, che nel prossimo anno scolastico punta afar entrare in vigore il regolamento sulla valutazione che estenderà cosìl’attività dell’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) non più solo agli studenti dellescuole primarie e delle medie inferiori, ma anche a quelli delle altre scuole: con il rischio di generalizzare una grottesca pratica didattico-valutativa che riduce, con stupefacente mancanza di sospetto, il problema complessissimo della trasmissione (ma sarebbe meglio dire dello studio critico) del patrimonio dei saperi e delle conoscenze ad una quizzologia tanto pretenziosa quanto perniciosamente futile, sostanzialmente rivolta a presentificare e/o attualizzare in chiave psicologistica lo spessore dei problemi culturali eintellettuali. Per altro verso, in riferimento all’Università, il ruolo dell’Anvur, questa «torre di Babele burocratica» (Bevilacqua), con la sua vera e propria furia ideologica della valutazione, è particolarmente emblematico, nel momento in cui pretende di sovrapporre lagriglia semplificatrice degli indici e degli algoritmi alla complessità culturale sia umanistica che scientifica, con effetti talvolta paradossali e persino formalmente contestabili. Naturalmente tale ruolo è interno alla logica di quel lungo processo sedicente “riformatore” e “modernizzatore” che da decenni va costruendo una trama di rapporti acritici, quando non perversi, tra Università e impresa, tra processi di formazione e interessi privati. Come èstato efficacemente osservato da una docente e studiosa dell’Ateneo barese,Tiziana Drago, «l’ “apertura al territorio”, l’ “avvicinamento alle aziende”,la “partecipazione dei privati” costituiscono il mantra da Berlinguer alla Gelmini. In nome della miracolosa capacità di regolamentazione del mercato e della concorrenza come ecologia della società».Tutto ciò chiamerebbe in causa i processi più generali di riclassificazionedei saperi negli ambiti interagenti della tecnica e del mercato e di loro incorporazione nella macchina, entro una tendenziale, se pur ricca dicontraddizioni, dilatazione “totalitaria” del capitalismo post-fordista: in un mix di specialismo corporativo e di cultura-spettacolo. Ma se rivolgiamo lanostra attenzione al senso comune imperante, soprattutto in riferimento alle coscienze giovanili, notiamo che quella che si potrebbe definire la cultura diffusa del revisionismo ha teso via via ad imporre un Novecento seccamente “liberato” della sua reale complessità storica e ridotto ad una sorta di bene culturale e spirituale di cui fruire in un consumo inerte e pacificato ovvero, talvolta, futile e rissoso insieme: un consumo che si può ricondurre ad unanuova forma di “americanismo”, inteso come terreno esemplare di caduta secca diogni rapporto critico col passato e col presente e con le forme culturali e ideologiche dell’uno e dell’altro. In questo ambito, le aberrazioni anticonoscitive e profondamente corruttive si sono ampiamente sprecate. Sipensi alla nozione di totalitarismo, proposta come mistificante, generico e qualunquistico, canone di lettura del «secolo breve», e, al conteggio, da rissaal Bar dello sport, dei morti di un totalitarismo rispetto ad un altro: esempio anche questo della degradazione populistico-plebiscitaria di una importante,ancorché assai discutibile, categoria di ordine etico e storiografico (qualequella, appunto, di totalitarismo). Tutto ciò è di fatto, in qualchemisura, funzionale ai vari tentativi in corso di mettere mano alla Costituzionee alla forma-Stato ad essa connessa, attraverso l’attacco diretto o indirettoal valore dell’antifascismo come storico valore fondativo. Ma tutto ciò non si fronteggia, non si respinge solo sul piano della vigilanza e della battaglia istituzionale o politico-istituzionale né soltanto sul piano specialistico-culturale. Tale vigilanza e tale battaglia sono senz’altro utili, ma dovrebbero collocarsi in una prospettiva più ampia e complessa: una prospettiva che potremmo chiamare con Gramsci di critica «molecolare» del «senso comune» imperante e, per questa via, di costruzione-formazione processuale di un nuovo senso comune e di un «progresso intellettuale di massa». Parole, queste, non scontate e non rituali: ma che anzi, oggi, ci parlano ancora in modo assai vivo, e concretamente utopico.Pasquale Voza30/06/2013 www.liberazione.it