RACCONTI & OPINIONI

Nel film di Virzì l'Italia dei giovani senza sogni, senza quella soggettività sociale che li rende anemici. Da vedere!


Il capitale umano E’ inequivocabilmente l’Italia, eppure la lente che la osserva non ha nulla di mediterraneo. E’ gelida, stilizzata, colore del cristallo, odore di alluminio. Abitata da gente dalle parole secche, sgarbate, frettolose, anaffettive. Gente ben vestita, grandi macchine, case lussuose. Il tutto tenuto insieme da una rete sentimentale slabbrata, piena di buchi, stracciata e buttata nel cesso. Nella vita ordinata di Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio) non manca nulla. Tutti i pezzi sono al loro posto, ma lui è smanioso come la volpe di Collodi, lui vuole gli zecchini d’oro, tanti, come quelli che ha il padre del moroso di sua figlia. Li vuole non per un motivo, giusto per avidità, per ascesa sociale. Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni) accorda al bifolco di sedere al suo tavolo, ovvero di fare un investimento ad alto rischio nella sua società. Ovvio che l’Ossola sarà lì lì per rimetterci tutte le penne. In questo giochetto da adulti senza valore sono costrette a partecipare le mogli – una Valeria Bruni Tedeschi, pavida e immalinconita e una Valeria Golino felicemente assente – e i figli, quelli che al tavolo da gioco dei padri rischiano di più. Con la solita capacità di dirigere il coro e una bella ispirazione tratta liberamente dal romanzo omonimo di Stephen Amidon, Virzì (affiancato dagli sceneggiatori Francesco Bruni e Francesco Piccolo) giunto al suo undicesimo lungometraggio è sull’orlo del miracolo, quello di superare se stesso. Virzì ha una filmografia chiara, pulita, sempre in crescita, sempre rispettosa del pubblico e dei suoi personaggi, che tratteggia con grande mestiere. Nella prima parte di “Capitale umano” avevamo intravisto un volo più alto, un’astrattezza che per un po’ ha trasformato la Brianza nell’intero nostro paese, travolto da una tempesta di ghiaccio (Ang Lee docet)  e oppresso da una oscura coltre di disumanità. Pochi tratti e le speranze sono già tutte morte, pochi scorci e nulla è più da spiegare. Basta guardare e farsi male per capire in quale girone infernale siamo finiti con tutto lo stivale. Ma nella seconda parte del film Paolo Virzì, che è regista puntiglioso e un po’ troppo concreto, ha voluto dare risposta a tutte le domande lasciate aperte, in primis quella del piccolo giallo del ciclista investito di notte da un suv. Da qui inizia una storia un po’ diversa, con trama più scontata. Che ha però il pregio di mostrarci più da vicino gli altri giocatori del tavolo dei padri, i figli, appunto. Questi ventenni a cui non è rimasto nulla in mano da conquistare o desiderare, nessun sogno da sognare, nessun genitore da emulare. Una generazione che per vivere non può che farsi male e che per riconoscersi non ha che urlare di dolore. L’inserimento però del genere thriller stona con l’aria sulfurea del resto del film e, altro appunto, le figure femminili sono abbondantemente meno lavorate di quelle maschili. A nostro avviso, un capolavoro a metà, un volo interrotto. Ma Virzì va avanti e noi lo aspettiamo, sempre con curiosità e anche gratitudine. Perché fa veramente del buon cinema italiano. Roberta Ronconi 11/01/2014 www.liberazione.it