Ricordando Rita Atria, la 'picciridda' del giudice Borsellino"Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'e' nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci". Queste parole dicono molto, forse tutto, della profondità di pensiero di Rita Atria, giovane testimone di giustizia nella lotta alla mafia, morta suicida il 26 luglio 1992, una settimana dopo la strage di via D'Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. Una scansione temporale assolutamente non casuale quella che lega i due eventi. Ma per capire fino in fondo la disperazione che, in soli sette giorni, prese possesso dell'anima di questa ragazza appena diciassettenne, fino a farle apparire la morte l'unica, tragica, soluzione, bisogna fare un passo indietro e correre con la mente a Partanna, cittadina siciliana nota alle cronache, purtroppo, più per la guerra tra clan mafiosi che non per le sue bellezze artistiche.E' qui che, il 4 settembre 1974, nasce Rita, figlia di Giovanna Cannova e "don Vito" detto il "paciere", uomo di fiducia della potente famiglia mafiosa degli Accardo. Ha solo 11 anni quando il padre rimane vittima di un regolamento di conti legato al nascente business del narcotraffico. Quel corpo a terra, crivellato di colpi, rimarrà per sempre impresso nella sua memoria e sarà solo il primo di una scia di sangue che imbratterà le speranze della sua famiglia. Qualche anno dopo, infatti, a morire sotto i colpi feroci della guerra tra clan sarà l'adorato fratello maggiore Nicola, con cui Rita aveva stretto un legame molto forte, diventando custode di segreti più grandi di lei. A lei, infatti, Nicola confidava nomi, spiegava strategie di controllo del territorio e connivenze politiche. Un muro di omertà che viene squarciato per la prima volta dal coraggio di Piera Aiello, giovane vedova di Nicola, che non aveva mai approvato lo stile di vita del marito. Piera parla, collabora, fa nomi e cognomi e grazie alle sue dichiarazioni vengono arrestate numerose persone. Per Rita arriva il momento di scegliere: restare in famiglia e diventare complice di un ostinato mutismo o, sull'esempio della cognata, parlare e ribellarsi al sistema mafioso? La scelta cade quasi naturalmente su questa seconda opzione e così anche Rita inizia a parlare e lo fa elencando quei segreti di cui, nel corso degli anni, è divenuta scomoda testimone. A raccogliere la sua preziosa testimonianza è il procuratore di Marsala, Paolo Borsellino, con cui nasce un rapporto filiale: la "picciridda" era infatti il tenero soprannome che il giudice le aveva dato. Nel suo sguardo buono e nei suoi occhi gentili Rita trova la forza di raccontare e raccontarsi, confortata dal senso di protezione che quel procuratore tanto impegnato nella lotta alla mafia riesce a trasmetterle. Facendole sembrare perfino più sopportabili le dure conseguenze che il suo ruolo di testimone le riserva: la sua famiglia, infatti, mal digerisce una "fimmina lingua longa e amica degli sbirri" e la ripudia, abbandonandola al suo destino. Paolo Borsellino la protegge, le garantisce un'esistenza clandestina a Roma, sotto falso nome, la sostiene nella lotta per la verità e la giustizia. Una favola troppo bella per durare a lungo. Quando, nell'estate del 1992, una carica di tritolo spezza per sempre la vita del giudice Borsellino e degli agenti della scorta, qualcosa si spezza anche nella giovane Rita. Si sente sola, di una solitudine che toglie il respiro e spegne le speranze: ripudiata dal fidanzato, dalla madre, dalla sorella e ora privata anche del supporto morale del giudice Borsellino. Troppo per una ragazza di appena diciassette anni, ma già con delle esperienze terribili alle spalle. Rita non ce la fa e, una settimana dopo la strage di via D'Amelio, si uccide gettandosi dal settimo piano del palazzo nel quale abitava. "Adesso non c'e' più chi mi protegge, sono avvilita, non ce la faccio più", queste le sue ultime parole scritte su un biglietto. "Attraverso le parole di Paolo - ha detto una volta Rita Borsellino, sorella del magistrato ucciso - Rita era diventata come una di famiglia, la nostra coraggiosa 'picciridda'. Mi piace ricordarla come la 'picciridda' della Sicilia e sperare che il suo coraggio, come il coraggio di Peppino Impastato, possano essere d'esempio a tanti altri giovani che come loro si trovano legati alla criminalità da una condizione familiare".Dopo due giorni di iniziative oggi la conclusione delle manifestazioni a Milazzo, dove sedici anni è nata l'associazione antimafia che porta il nome di Rita. Alle ore 19 don Luigi Ciotti celebrerà una santa messa in suffragio delle vittime innocenti della mafia, mentre alle 21 in piazza Duomo ci sarà una serata di testimonianza, confronto e musica che coinvolgerà le associazioni del Presidio antimafie di Milazzo e i gruppi che vengono da tutta la Sicilia e dall’Italia.Valeria Nevadini26 Luglio 2010
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