RACCONTI & OPINIONI

Al festival del cinema di Venezia. La miseria che ti costringe a fuggire alla ricerca di una vita agra al nord


L'Italia vista "dal basso" di Scimeca e TurturroSuccede solo nei Festival. Due autori lontani nel modo di fare e pensare cinema, ma uniti dalla provenienza e dall'amore per il Sud, possono costruire un involontario dittico che si offre al pubblico per raccontare l'Italia dimenticata, quella del Mezzogiorno. Quella maltrattata da stereotipi e pregiudizi, emarginata dal potere, attanagliata da un handicap mai colmato di un imperialismo di bassa lega (o Lega?) che ha sempre portato il Nord a dominarla e sfruttarla. Più politico, come sempre, è Pasquale Scimeca, che ha l'ardire e l'ardore di sfidare Giovanni Verga e pure Luchino Visconti. Riporta, con un adattamento libero e moderno, nella sezione Orizzonti, i Malavoglia sul grande schermo, mantenendone il verismo quasi ossessivo e la ruvida potenza, ma portandola ai giorni d'oggi. Disegnandola sul viso di un immigrato clandestino (lo è stato per sei anni nella realtà l'ottimo Naceur Ben Hammouda) che impara il dialetto siciliano meglio degli indigeni, di ragazze coraggiose nelle loro scelte di vita e d'amore, della rabbia giovane incarnata da Antonio Ciurca, già nel bel Rosso Malpelo. E rispetto al film precedente, Scimeca, sa andare oltre, prova linguaggi diversi, visivi, musicali, interpretativi, molla alcuni dei suoi schemi- il suo è un cinema orgogliosamente e nobilmente ideologico- rimanendo ancorato a solidi contenuti. Perchè quella di questo cineasta è un'Italia vista dal basso, cercata in quel sottoproletariato senza diritto di cittadinanza. Che siano pescatori siciliani o migranti clandestini, poco importa, non è il passaporto o il permesso di soggiorno che conta, ma la miseria che ti costringe a fuggire per tre mesi alla ricerca di una vita agra al nord o di ricostruire una barca maledetta più volte. E pazienza se, rispetto a Rosso Malpelo o ad altri gioielli scimechiani, ci sono elementi di discontinuità e a volte il film arranca, l'unione pur imperfetta tra l'ostico capolavoro letterario di Verga e il cinema di Scimeca ci dice tanto, anche troppo. E troppo è anche il cinema di Turturro, che da regista si fa amare come, se non più, nelle sue interpretazioni. Il suo Passione è un inno alla vita e a Napoli. Lo si capisce da quella vecchietta in tuta fosforescente che apre il film, con un "Forza Napoli!" che viene dal cuore, e da Turturro stesso, Virgilio sorridente, ironico e affettuoso che ci accompagna nel suo tour partenopeo, fatto di musica, tanta e bellissima, immagini e suggestioni. Tra una Malafemmena di Massimo Ranieri, un Comme facette mammeta scatenato della straordinaria Pietra Montecorvino, tra i Spakka-Neapolis 55, gli Almamegretta e gli Avion Travel, tra Renato Carosone, Sergio Bruni e persino Mina, per chiudere ovviamente con la Napoli dai mille colori di Pino Daniele (ma che è anche "'na carta sporca e nisciuno se ne importa...). E imperdibile, un cult nel cult, sarà il Caravan Petrol che vede una guest star d'eccezione: Fiorello, che si getta in un'interpretazione e in una coreografia che sembra uscita da Il grande Lebowski in uno pseudodeserto napoletano. Cos'ha in comune con Scimeca? L'amore per un sud maltrattato. Turturro non vuole negare le difficoltà del Meridione, vuole solo mostrare l'incosciente coraggio di un popolo che, come ci dice Peppe Barra commentando la Tammuriata nera, nasconde "rabbia, disperazione e tristezza". John, che vezzosamente si firma Giuà e che ha origini pugliesi, si butta nei quartieri più poveri, fa cantare i napoletani tirandoli fuori dagli stereotipi, soprattutto quelli musicali. Anche grazie alla brillante collaborazione del giornalista ed eccellente critico musicale de Il Mattino Federico Vacalebre, non si adagia sulle grande tradizione partenopea ma la riscopre con ritmi innovativi, contaminati, spesso selvaggi. Ci racconta aneddoti gustosi come l'origine della sceneggiata- "i cantanti erano tassati il 3% in più degli attori- racconta Turturro- ecco perchè nasce, una soluzione molto napoletana"- e ci porta, persino ballando, nei vicoli più difficili di una città unica ed esplosiva, in tutti i sensi. Le canzoni, sottotitolate anche per gli italiani, vengono rivalutate nel loro valore artistico e intellettuale, Turturro tira fuori quella città fatta "di contraddizione, ironia e paradosso" che parteggia per i perdenti, che ama più Viviani di Eduardo, più Bruni di Murolo (che qui non c'è), che canta le sue puttane e i suoi Don, perchè più veri dei poteri, costituiti e non. Impossibile non cantare, ballare, emozionarsi, arrabbiarsi guardando il disagio in un infernale paradiso del genere. D'altronde, citando una canzone "colpevolmente" dimenticata da Turturro, Napoli è da sempre Dduje Paravise.Boris Sollazzo 05/09/2010leggi www.liberazione.it