RACCONTI & OPINIONI

Don Luigi Ciotti fondatore del Gruppo Abele e di Libera, a sostegno del quotidiano Liberazione


«Riscoprite il vostro nome: costruiamo liberazione» «L'ho vista nascere Liberazione, su alcuni temi è tra le poche voci a farsi sentire. Su altri è in ritardo. Forse è un problema di forze». Forse. Forse ha ragione ancora una volta Luigi Ciotti, il fondatore del Gruppo Abele, di Libera, il prete che sfida le mafie, che per tre anni ha dormito coi senza casa sulle panchine di Porta Nuova, la stazione di Torino. Certo ci vuole bene e dunque è giusto provare a capire dove annaspiamo. Questo giornale un po' è anche suo, di quelli come lui. «Liberazione - spiega in un ritaglio di tempo nei lavori di Ole, il forum internazionale dell'antimafia sociale - cerca di andare sempre controcorrente, di denunciare con puntualità le ingiustizie, le diseguaglianze, i poteri criminali. Non ha mai nascosto il conflitto di interessi, crede nella cultura, nella crescita consapevole, nel "noi" come fattore di cambiamento». Insiste sul «cerca», don Ciotti: «Dico che cerca di fare perché mi piacerebbe avesse più incisività su alcuni temi: le nuove dipendenze, il lavoro di strada, il contrasto alla tratta. Pensa che il governo ha tagliato la linea verde sebbene quel servizio abbia salvato 14mila ragazze». Il cronista ricacccia in gola il riflesso condizionato a blaterare giustificazioni e resta in ascolto: «Oggi - va avanti Luigi Ciotti - la soglia di povertà è fissata sotto i 950 euro mensili. Bene, tutti i nostri operatori guadagnano meno di quella cifra. Non ti pare un'assurdità che chi lotta per strappare altri dalla povertà debba essere povero a sua volta? Oggi non c'è una voce che lo denunci, chiudono cooperative, vengono annullati progetti, migliaia di persone si sono messe in gioco». Ciotti racconta l'esperienza di una delle "sue" cooperative i cui operatori si sono autoridotti lo stipendio per non mandare a casa nessuno. E ripete che aspetta voci che si alzino, che ci vorrebbe una vertenza nazionale. E a noi suggerisce di recuperare lo spirito del nome della testata: «La storia delle persone è un cammino di liberazione. Dobbiamo costruirlo, questo cammino». Cita Bobbio, lo farà anche più tardi nella piazzetta del castello di Otranto dove in centinaia lo stanno a sentire mentre discute con l'ex ministro delle finanze ecuadoriano. «Non vi è cultura senza libertà, ma non vi è cultura senza spirito di verità». Da un po' di tempo, da quando ha assistito al linciaggio di Boffo, Ciotti si documenta su ciò che succedeva nei giornali al momento dell'avvento del fascismo. E ha scoperto che il fondatore della Stampa di Torino, Alfredo Frassati, fu costretto a dimettersi per le accuse di aver minato il «credito nazionale». «Ora il dittatore è tornato. Ed è un peccato il non sapere, o il sapere di seconda mano, superficiale. C'è bisogno di profondità per essere più responsabili». L'esempio è questo forum di Otranto che incrocia le competenze con le storie creando una ricchezza di conoscenze. Libera e Flare, il network internazionale dell'antimafia sociale, stanno provando a globalizzare il protagonismo dei movimenti contro il globalizzarsi delle mafie. A Mosca Ciotti ha preso parte a una riunione nella redazione dove lavorava Anna Politovskaja. E' rimasto colpito dalla sfilza di foto sul muro, volti di cronisti uccisi. Troppi. In Italia non c'è una redazione così. Ma ci sono bavagli, autobavagli e tagli, che poi sono bavagli anche loro. «Una democrazia non può vivere senza la cura dell'informazione e della cultura. La tutela dell'informazione assicura il pluralismo, è quello che dà la sveglia alle coscienze». Parole per nulla scontate alla luce del fatto che i poteri mafiosi investono sul controllo dei media. «Così come fanno nel mondo del pallone. In alcuni casi ostentare la proprietà di un giornale è un segno di potere e prestigio», spiega Ciotti che da sedici anni è sotto processo. Sotto processo, per diffamazione. Era il '94, quando uccisero don Peppino Diana. Erano stati i casalesi ma un giornale del posto insinuò che fosse una storia di donne, sbattè in prima pagina le foto delle ragazze, montò sospetti, sguazzò nell'ambiguità. «E fummo denunciati noi», continua Ciotti. Tre anni fa uno dei vertici di quella testata è finito dentro perché sarebbe stato sul libro paga della camorra. Ma intanto il processo non s'è ancora chiuso. Le cosche possono permettersi fior di professionisti. E i loro referenti politici sono gli stessi che decidono bavagli e tagli.Francesco RuggeriOtranto (Lecce) 04/09/2010