RACCONTI & OPINIONI

Vite bruciate sul lavoro. Lui si chiamava Pietro Mirabelli. Queste sue parole risalgono a pochi anni fa


"Non si muore mai di incidente". Questo Pietro lo sapeva. E lo denunciava“Sono Pietro Mirabelli, operaio della Tav e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (Rls). Da dodici anni sono presente sul cantiere del Cavet (Consorzio Alta Velocità Emilia e Toscana) l’impresa che ha vinto l’appalto per la realizzazione del tratto che permetterà di collegare Bologna a Firenze. In questi anni ho visto decine e decine di operai infortunarsi, diventare invalidi e morire. Manca poco alla fine della realizzazione. Molti uomini e donne saliranno sui treni e non immagineranno quanto sangue è stato versato, quante madri hanno pianto per i loro figli e quante mogli sono rimaste sole. L’attenzione sugli infortuni sul lavoro è forte quando ci sono incidenti nei luoghi di lavoro, se ne parla una settimana, e poi tutto viene messo nel conservatorio della dimenticanza. Ma ogni giorno muoiono lavoratori in aziende sconosciute, nell’edilizia, nell’agricoltura. Poi, quando accadono ad esempio stragi come quella di Torino, allora qualcuno se ne occupa”. Si chiamava Pietro: Pietro Mirabelli. Queste sue parole risalgono a pochi anni fa. Pietro era un’amico, prima che una “fonte” di notizie. E’ morto ieri in una galleria in Svizzera dove era stato costretto ad andare inseguendo il lavoro. Pietro possedeva una capacità amara, purtroppo: scrivere in vita come sarebbe stata la propria morte. E’ il raro pregio di chi sa guardare lontano. Forse troppo. Il suo sguardo lontano si fissava sempre sullo stesso punto: non si muore mai di incidente. Sul lavoro si muore sempre perché chi ti sfrutta vuole tutto, anche la tua vita. Contro questa legge scritta dai potenti Pietro si è sempre battuto. Lo ha fatto con dignità e forza, con pervicacia e amore. Lo ha fatto perché il suo sguardo sapeva arrivare dove quello degli altri si fermava con facilità. Pietro era stato, e continuerà ad essere, un punto di riferimento per tutti i lavoratori che pur non avendo quello stesso sguardo vivono la realtà dello sfruttamento. I suoi minatori, innanzitutto. Pietro aveva fatto tanto per loro, e non solo sul posto di lavoro. Durante i lavori di costruzione della galleria del Vaglia aveva organizzato la lotta per avere migliori condizioni di lavoro, e di vita. Il racconto di quel periodo irripetibile è racchiuso nel bel romanzo di Simona Baldanzi. A Pagliarelle, frazione di Petilia Policastro, in provincia di Crotone, uno dei luoghi di maggiore emigrazione in Italia, aveva lottato contro tutto e contro tutti per far erigere un monumento ai caduti sul lavoro. Non era il monumento in sé che lo interessava. Era l’idea che la gente fosse costretta a ricordare. Era l’idea che le istituzioni dovevano continuare ad occuparsi dei lavoratori anche quando questi mettevano da parte pala e piccone. ”Siamo in questo buco di posto”, ripeteva, dove per arrivarci ci si impiega due giorni da Firenze. Proprio noi che abbiamo costruito l’Alta velocità!”. Pietro è la dimostrazione, e la denuncia”, che quell’infame campagna del Governo sulla “sicurezza sul lavoro” deve essere subito ritirata: Pietro si voleva bene. E, soprattutto, voleva bene ai suoi colleghi di lavoro. Questo non gli ha evitato di finire tragicamente. Perché? I “papaveri” del ministero che hanno partorito quell’assurdità stando dietro a una scrivania, non sanno che sul lavoro c’è sempre chi comanda e chi ubbidisce. Non sanno che il potere di decidere sulla propria vita non appartiene al lavoratore: altrimenti non sarebbe un lavoratore. Altrimenti, chi è costretto a stare nel fango, nell’altoforno, nel rumore infernale di una catena, in strada a respirare lo smog, non percepirebbe un salario, ma vivrebbe di rendita. Fabio Sebastiani 22/09/2010a cura della cooperativa editoriale LIBERAROMAleggi www.controlacrisi,org