RACCONTI & OPINIONI

Sfila nel corteo anche la “zona grigia”, ma i manifestanti hanno contestato con l'ironia i doppiogiochisti


A Reggio Calabria migliaia in piazza contro la 'ndrangheta Migliaia e migliaia di persone, forse quarantamila, sabato hanno attraversato le vie principali di Reggio Calabria per dire no alla violenza 'ndranghetista. Una manifestazione seconda, per imponenza, solo a quella organizzata nei primi anni '90, in piena guerra tra i clan, quando in città si era ormai perso il conto dei corpi crivellati. Con la differenza, sostanziale, che stavolta la quasi totalità dei convenuti era composta da reggini e calabresi. All'appello lanciato dal Quotidiano della Calabria hanno aderito da ogni angolo della regione: studenti, sindacalisti, lavoratori delle realtà in crisi, associazioni del variegato arcipelago antimafia e antiracket, familiari delle vittime innocenti, artisti, movimenti contro gli ecomostri e per i diritti civili, commercianti, agricoltori, amministrazioni locali, forze politiche e tanti singoli cittadini indignati, con una presenza straordinaria delle donne. Una platea plurale, eterogenea, a tratti contraddittoria, ma davvero imponente e gratificante. Del resto, era una manifestazione “inclusiva”, aperta a tutti, senza discriminanti e piattaforme specifiche, che aveva come unico collante il rifiuto dell'escalation criminale registratasi negli ultimi dieci mesi in riva allo Stretto. Dal 3 gennaio ad oggi, in seguito al giro di vite della magistratura e alcune eclatanti azioni di polizia, c'è stata una sequela di attentati e intimidazioni che ha fatto ricadere su Reggio la cappa plumbea degli anni peggiori, al punto da far temere un nuovo conflitto armato tra le cosche: bombe contro la Procura generale e davanti le abitazioni dei magistrati più esposti; auto incendiate, proiettili e minacce ai giornalisti non allineati, dirigenti sindacali e politici; alcuni omicidi eccellenti. Non si guarda in faccia a nessuno, al punto che le fiamme e le bombe hanno colpito qualche giorno fa anche due asili ed una chiesa. La redazione del Quotidiano della Calabria ha, quindi, raccolto i sentimenti di disapprovazione e rabbia che covano nella società calabrese e promosso un'iniziativa che farà parlare di sé per lungo tempo. Un'iniziativa il cui esito, per i motivi sopra accennati, non era affatto scontato. Le titubanze erano forti, specie da parte di chi sul terreno dell'antimafia sociale è attivo 365 giorni l'anno. L'assenza di “paletti”, la mancanza di rivendicazioni per contrastare – non solo sul piano militare e giudiziario, ma anche quello economico, istituzionale e culturale – le 'ndrine, le adesioni pervenute anche da parte di soggetti che con la loro storia contraddicono i valori dell'appello, hanno messo sul chi va là diversi movimenti. Una parte consistente dei sì al corteo è arrivata, in maniera sofferta e pronunciata con riserva, solo negli ultimi giorni utili. Distanze che molti hanno voluto ribadire anche durante la manifestazione, al punto da sfilare dietro striscioni come: “La 'ndrangheta è viva e marcia insieme a noi... purtroppo!”. Il riferimento esplicito era a certi politici che, sorridenti in abiti scuri sartoriali, non hanno esitato a scendere in piazza nonostante le inchieste sul proprio conto e le intercettazioni roventi. O ai rappresentanti delle organizzazioni padronali, che poco o nulla hanno fatto per indurre gli associati a denunciare il “pizzo”. Oppure ai burocrati della “zona grigia” che sul bavero esponevano, ben in in vista, le spillette delle logge massoniche di appartenenza. Cinquanta, cento (o forse più) facce che gli attivisti antindrangheta non avrebbero mai voluto incrociare, ma che non potevano in nessun modo impedire a decine di migliaia di reggini e calabresi onesti di far sentire la loro voce. Esserci era necessario per riprendersi gli spazi, per non far cadere nel vuoto questo coro di ribellione, per non lasciare ai collusi la bandiera del no alle mafie in nome di presunzioni di “purismo” e “intransigenza”. Alla fine la scelta di metterci la faccia nonostante tutto, di calcare le strade con le proprie parole d'ordine e senza censure, di emarginare gli infiltrati con l'ironia tagliente di queste parti, è risultata giusta e lungimirante. Sabato a Reggio è stato un giorno di festa e di passione civile, come il 22 ottobre del '72, quando la città divenne capitale morale del “Sud e il Nord uniti nella lotta”. Ora si tratta di preservare e valorizzare il grande e dirompente potenziale che è emerso dalla marcia dei quarantamila, di non farla restare un atto isolato ed estemporaneo. Esistono tutte le condizioni affinché, come è già avvenuto a Palermo, il movimento antindrangheta diventi stanziale, di massa, e la sua egemonia condizioni l'operato degli enti pubblici e delle organizzazioni datoriali. Qualcosa si muove. Da poco è sorto un marchio di commercianti che rifiutano l'imposizione del racket. Grazie agli strumenti di internet, dall'attentato del 3 gennaio tanti cittadini rispondono “colpo su colpo” alle intimidazioni dei clan, promuovendo presidi democratici nel giro di poche ore. Sempre più giovani conoscono l'esempio di combattenti come Giuseppe Valarioti, Ciccio Vinci e Rocco Gatto e socializzano il dolore di Mario Congiusta, padre di una vittima innocente. Nella Locride e nella Piana di Gioia Tauro resistono e producono le cooperative sociali sorte sui terreni dei boss. Non si è piagata la Rete No Ponte, che continua ad essere un baluardo contro la penetrazione delle 'ndine. Inoltre, non tutte le istituzioni sono “impermeabili” alle pressioni dei cittadini che chiedono trasparenza e chiare scelte di campo: la Provincia e molti Comuni si sono dotati della Stazione unica appaltante; sempre la Provincia, ormai da anni, si costituisce parte civile in tutti i processi contro i clan; nella periferia di Reggio sorge in un immobile confiscato, a perenne monito, il Museo della 'ndrangheta mentre a Gioiosa Ionica è stato ristrutturato il murales del “quarto stato” della lotta antimafia. Segnali non di poco conto. Raramente i riflettori dei grandi media documentano questa resistenza quotidiana, fatta in primo luogo da uomini e donne comuni e non “professionisti”. L'immagine che continua ad andare per la maggiore è quella di una collettività piegata e complice, omertosa e culturalmente succube. Un'immagine che non corrisponde ai tratti delle migliaia, migliaia e migliaia di persone che sabato hanno gridato i loro no. Esclusi, ovviamente, quei cento ospiti non graditi.  Omar Minniti Consigliere provinciale Rifondazione Comunista Reggio Calabria27/09/2010