RACCONTI & OPINIONI

"Il bambino con le braccia larghe". Un libro/testimonianza di Carlo Gnetti, Scrittore e giornalista


Psichiatria, liberare la 180 dai "normali" "Il bambino con le braccia larghe" (Ediesse, pp 204, 10 euro) non è solo il racconto di un caso di malattia mentale. Non è solo una "biografia doppia", dell'autore e di suo fratello Paolo. E non è solo l'ennesima testimonianza sul difficile cammino di una legge, la "180", che tutto il mondo invidia all'Italia e che gli italiani non sanno nemmeno che esiste. Gli italiani sanno soltanto che prima c'era il manicomio, e che adesso non c'è più. Gli italiani si lamentano quando un "pazzerello" disturba loro la passeggiata. Gli italiani confondono continuamente il tema della sicurezza con quello della terapia psichiatrica. Gli italiani nemmeno sospettano che in realtà il reinserimento della marginalità è, in qualche modo, il loro reinserimento, il reinserimento di una comunità nel mondo di un accettabile buon senso. E' di questo che parla in fondo il libro. Parla di percorso di vita individuale caratterizzato dalla patologia e quindi necessariamente "allargato". Carlo si assume la responsabilità, tutta sperimentata sul campo, di essere la navicella spaziale che collega mondi tra loro lontani cercando una rappresentazione se non proprio coerente almeno dialogante. Contraddizioni, battaglie, muri di gomma, piccole vittorie e immediati rovesci, questa è più o meno la sintesi della cronaca di questi viaggi. Liberazione ha intervistato Carlo Gnetti, giornalista di "Rassegna Sindacale" ed esploratore della "Legge 180".  La storia tua e di tuo fratello, la vostra storia, insomma, illustra benissimo come la famiglia non è soltanto l'oggetto della cura ma anche il soggetto di un intervento complesso e articolato. All'inizio della vicenda gli aspetti psicanalitici sono stati sicuramente prevalenti. Poi però si sono rivelati fallimentari perché non hanno avuto effetto su Paolo ma soprattutto sulla sua famiglia. Poi c'è stato un secondo elemento sempre legato alla psicanalisi, quello della rottura del cordone ombelicale. Questa pure è stata una tappa fondamentale nella sua malattia. A quel punto sono rimasto l'unico punto di riferimento. Paolo è stato isolato dal resto della famiglia. Il coinvolgimento dei famigliari andava quindi ricollocato in una diversa prospettiva. Che tipo di problemi ha posto questo passaggio?Dalla comunità è stato espulso perché il criterio era il reinserimento. Non essendo riuscita in questa mission è stato espulso per naturale turnover. Ci sono tipi di malati che si cronicizzano che non sono reinseribili. E' questo il punto. La comunità, comunque, di quel gruppo di quindici ne ha reinseriti dieci. A quel punto sei dovuto reintervenire ancora tu...A quel punto ho dovuto fare da interlocutore in questa fase di espulsione e di inserimento nella casa famiglia (ritorno nel possibile alveo della famiglia). Non è stata una cosa semplice. Mi sono trovato a decidere da solo anche per lui. Questo ti pone una serie innumerevole di problemi, di punti di vista, di valutazione completa delle motivazioni. Sono stato l'interlocutore unico nel momento della dimissione di Paolo dalla comunità. Mi sono trovato a decidere su cose che riguardano la vita di una persona. Il periodo della casa famiglia è stato anche interessante per certi aspetti perché in qualche modo Paolo ha anche acquisito alcuni diritti civili, come il voto. In una casa famiglia non sei più in una istituzione chiusa. Ma Paolo non poteva reggere la spinta alla responsabilizzazione. E così è stato escluso. Dicevamo del ruolo mancante tra l'istituzione e il malato...Tutta questa vicenda dimostra che pur essendo sotto la responsabilità pubblica manca quell'interlocutore unico che non ti costringa ogni volta a ricominciare tutto da capo. Alla fine ci si occupa del caso ma non della persona. Ho dovuto proprio fare da tramite tra Paolo e l'istituzione, non intesa come soggetto unico. Lui in realtà ha fatto quasi una sua evoluzione chiudendo con la sua storia il cerchio della legge 180. Una delle sue ultime esperienze è stata a Colle Romano che è la riproposizione del maniconio pura e semplice, forse a misura d'uomo ma sempre istituzione totale.La chiusura dei manicomi a cosa ha portato?Alla riproposizione di tanti piccoli manicomi sparsi nel territorio. Poi ci sono le Rsa che sono dei posti riservati ai malati cronici all'interno di altre strutture come cliniche e case di riposo. La differenziazione adottata in questo tipo di strutture, in sé, a seconda del tipo di malattia, può essere una cosa positiva, ma alla fine vedi che nella gestione quotidiana non ci sono troppe sottigliezze. La crisi della 180, quindi…La sanità è stata oggetto solo di tagli e non di investimento qualitativo. La psichiatria nell'ambito della sanità è stata sempre considerata una cenerentola. La psichiatria avrebbe bisogno invece di un approccio articolato e problematico. C'è stata qualche speranza di cambiamento solo quando c'è stata la volontà dei singoli e delle piccole istituzioni. Però così i tempi si moltiplicano e le situazioni diventano più complesse. Così siamo costretti a rincorrere una materia sociale che si fa sempre più complicata e impenetrabile. E il mondo accademico che dice?Appunto, è un nodo da sciogliere. C'è uno scontro in atto che è vecchio quanto la legge 180 tra gli organicisti, quelli che considerano la malattia mentale di origine organica e spingono verso una cura che si basa sugli psicofarmaci, e c'è invece una corrente della psichiatria che non è che neghi gli aspetti organici ma è più attenta agli aspetti sociali, ai servizi, all'impatto ambientale della malattia psichiatrica. Finché non si va alla ricomposizione di queste due tendenze e lo Stato non fa un investimento sugli interventi sostanzialmente avremo sempre una ombra pesante. L'ombra pesante è che la società e l'istituzione medica sembrano incapaci di capire che cosa è la malattia mentale e come trattarla in un modo sostanzialmente umano. Il punto è che, al di là della possibilità o meno di guarire dalla malattia mentale, i malati siano trattati come persone umane che hanno diritto di vivere, anche.E poi c'è una impostazione culturale e politica che sembra regredire…Il modo in cui il novecento ha trattato la malattia mentale è molto legato al fatto che il malato mentale non rientrava nelle logiche della produzione. Una persona improduttiva, in quanto tale, andava isolata e reclusa. Però piano piano si è preso coscienza. C'è una fondamentale differenza per esempio sul modo in cui viene considerato l'handicap oggi rispetto a quarant'anni fa. Si sta prendendo coscienza che le persone diverse non per forza vanno escluse dalla comunità umana ma vanno incluse e il percorso che porta alla loro inclusione è un percorso molto difficile che prevede anche dei passi indietro. Da questo punto di vista la legge 180 con il suo carico di valori positivi rimane un importante punto di riferimento Nel tuo libro c'è un bellissimo capitolo, l'ultimo, dedicato alla "Art therapy".Credo molto alla forza espressiva di questa pratica. Per me addirittura riscoprire a distanza di anni quei disegni è stato riscoprire un aspetto artistico di mio fratello che avevo dimenticato. Ero un po' scettico all'inizio ma rileggendo la relazione certo non si può parlare di un effetto terapeutico però è sicuramente un altro tassello nella umanizzazione della malattia mentale. L'espressione artistica dà la misura di come le persone valgono per quello che hanno dentro e non per quello che sanno fare.Fabio Sebastiani12/11/2010 leggi www.liberazione.it