RACCONTI & OPINIONI

A proposito della barbarie di Marchionne e Berlusconi. Leggete Stefano Rodotà, l'interprete più genuino della Costituzione


ContinuaAntropologia dell’homo dignus Ma nel momento in cui, nel 2000, si discuteva intorno alle parole e ai principi ai quali, aprendo la Carta dei diritti fondamentali, doveva essere consegnata la prima immagine costituzionale dell’Europa, la decisione di affidarsi prima d’ogni altra alla parola “dignità” non voleva esprimere soltanto la rinnovata consapevolezza di rischi mai del tutto tramontati, la necessità di custodire una memoria dalla quale la coscienza europea non potrà mai separarsi. L’esperienza di molti decenni portava oltre il bisogno di un dato di natura al quale aggrapparsi. Si era ormai di fronte ad una costruzione consapevole, storicamente collocata, che rendeva possibile non avere come orizzonte predominante la logica sostanzialmente “reattiva”, “oppositiva”, posta all’origine della costituzione tedesca. La dignità si presenta ormai come uno strumento che, pur essendo ancora oggetto di diffidenze e critiche, può essere valutato sulla base del modo in cui è stato concretamente adoperato, e che gli ha consentito una accettazione anche in ambienti culturali che, come quello francese, gli erano stati storicamente ostili. Si era determinata, in sostanza, una dinamica che sembra inverare quanto è scritto in apertura del Preambolo della Dichiarazione dell’ONU, riconducendo a verificabili dati di realtà l’enfasi che, altrimenti, la caratterizza: «il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Proprio uno sguardo realistico, tuttavia, obbligava al tempo stesso a rendersi conto che la dignità conosceva nuove sfide, continuava ad essere violata anche in forme inedite, rendendo così indispensabile non solo una sua riaffermazione d’ordine generale, ma la sua considerazione come un vincolo per la politica e le istituzioni: dal rispetto alla tutela, dal monito proveniente dal passato all’indicazione per il futuro, dalla statica alla dinamica. Una dignità non più soltanto oppositiva, ma fondativa. Lo aveva ben intuito Carlo Esposito, quando aveva sottolineato che il regime democratico previsto dalla Costituzione repubblicana «non afferma solo il principio della pari dignità di ogni cittadino, ma della sovrana dignità di tutti i cittadini».(9) Sovrana, dunque, la dignità: come appunto “virtù sovrana” apparirà più tardi l’eguaglianza a Ronald Dw (10)È in questo clima che si compie la scelta che porterà all’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali: la persona inseparabile dalla sua dignità. Questa conclusione richiama una storia lunga, davvero l’invenzione di un’altra umanità attraverso la dignità dei cristiani e quella dell’uomo moderno, rinascimentale, con una scoperta che fece esclamare «magnum miraculum est homo». (11) Ma il modo in cui il tema della dignità è stato riproposto nel tempo che viviamo si è sempre più identificato non tanto con una essenza o una natura dell’uomo, quanto piuttosto con le modalità della sua libertà ed eguaglianza. Non è certo un caso che il principio di dignità sia giunto alla ribalta del costituzionalismo nel momento in cui è apparso ineludibile il rifiuto della imposizione esterna, della costrizione in ogni sua forma, del rispetto profondo dell’umano. «Per vivere – ci ha ricordato Primo Levi – occorre un’identità, ossia una dignità». Solo da qui, dalla radice dell’umanità, può riprendere il cammino dei diritti. Proprio questa consapevolezza è alla base di un’altra scelta rinvenibile nella Carta dei diritti fondamentali dove, nel Preambolo, si afferma che l’Unione europea «pone la persona al centro della sua azione». Una ricostruzione complessiva del sistema costituzionale italiano consente di giungere a conclusioni analoghe, nella sostanza anticipatrici, e persino più nette per quanto riguarda la centralità della persona. Se questa consapevolezza ha tardato a manifestarsi, ciò è dovuto ad un insieme di fattori culturali e politici che qui non possono essere analizzati. Il punto significativo, ad ogni modo, è rappresentato proprio dal fatto che la rilevanza attribuita alla persona, anzi la sua vera e propria costituzionalizzazione, trovano un fondamento essenziale nel rapporto istituito con il principio di dignità, evidentissimo nella trama costituzionale, e che impone oggi anche una lettura dell’articolo 3 che vada oltre la dialettica tra eguaglianza formale e sostanziale, oltre la lettura che nei due commi di quell’articolo ritrovava «due modelli contrapposti di struttura socio-economica e socio-istituzionale», (12) «l’uno per rifiutarlo, l’altro per instaurarlo». (13) Questa tensione introdotta nel sistema politico-istituzionale permane. E tuttavia non si esaurisce qui la portata dell’articolo 3. Lo dice il suo stesso incipit: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale». Proprio qui, nella rilevanza attribuita alla dignità prima ancora dell’elencazione tradizionale delle cause di non discriminazione e nella sua qualificazione come “sociale”, (14) cogliamo non solo una novità, ma il tramite verso la più marcata presa di posizione contenuta nel secondo comma, con l’esplicita sua indicazione di un obbligo istituzionale di ininterrotta opera di trasformazione. Non possiamo più dire, dunque, che si tratta di una norma a due facce, l’una volta verso la conservazione dell’eredità, l’eguaglianza formale; l’altra rivolta alla costruzione del futuro, l’eguaglianza sostanziale. La sottolineatura della dignità sociale ci porta oltre questo schema, dà evidenza a un sistema di relazioni, al contesto in cui si trovano i soggetti dell’eguaglianza, poi esplicitamente considerato dalla seconda parte della norma. Questa lettura unitaria dell’articolo non ne depotenzia la forza “eversiva”, ma dice che la stessa ricostruzione dell’eguaglianza formale non può essere condotta nell’indifferenza per la materialità della vita delle persone, per la loro intatta dignità, per i legami sociali che le accompagnano. Proviamo a saggiare, a questo punto, i molteplici intrecci rivelati dai rapporti che vengono istituiti tra libertà, eguaglianza, dignità. Nell’articolo 3, ricostruito nel suo carattere unitario grazie al riferimento alla dignità, compare l’esplicita associazione tra libertà ed eguaglianza, due principi che una tradizione critica e molte tragiche esperienze del Novecento avevano visto in termini di opposizione, se non di radicale esclusione. Più avanti, nell’articolo 36, l’«esistenza libera e dignitosa» del lavoratore e della sua famiglia descrive la condizione umana e la lega alla creazione di una situazione di libertà e dignità. E quando l’articolo 41 esclude che l’iniziativa economica privata possa svolgersi in contrasto con sicurezza, libertà e dignità umana, di nuovo questi due principi appaiono inscindibili. Possiamo concludere che l’ineliminabile associazione con la libertà è la via che immunizza dagli eccessi dell’eguaglianza e dalle ambiguità della dignità, che tanto avevano inquietato nel secolo passato e che proiettano ancora un’ombra sulle discussioni di oggi? Questa ricostruzione del sistema consente di guardare all’articolo 36 come alla norma che dà senso e portata concreta alla nuova antropologia già desumibile dall’articolo 1 e dal suo riferimento al lavoro. La Costituzione non guarda al lavoro come ad una astrazione e non si ferma al dato materiale dell’esistere. Stabilisce che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Non una qualsiasi forma di esistenza, dunque, ma quella che dà pienezza a libertà e dignità. Siamo di fronte ad un intreccio complesso, ad un gioco di rinvii che non solo vieta di astrarsi dalle condizioni materiali, ma stabilisce una relazione necessaria tra esistenza, libertà, dignità (che si vuole non solo individuale, ma “sociale”, come già si è detto), sviluppo della personalità (in una dimensione segnata dall’eguaglianza). Seguendo questa traccia, la vita non è più “nuda”, trova nello stesso lessico giuridico le parole che possono aiutare a coglierne il senso. Il lavoratore come figura che dà diretta concretezza all’homo dignus, dunque. Ma proprio questa antropologia della modernità giuridica è ora messa in discussione, anzi sfidata e radicalmente negata, da una logica di mercato che, in nome della produttività e degli imperativi della globalizzazione, prosciuga i diritti e ci fa ritornare verso quella “gestione industriale degli uomini” che è stato il tratto angosciante dei totalitarismi del Novecento. Viene spezzato il nesso tra lavoro e dignità, davvero con una rinnovata riduzione delle persone a cose, a “oggetti” compatibili con le esigenze della produzione. Dall’esistenza libera e dignitosa si tende a passare ad una sorta di “grado zero” dell’esistenza, alla retribuzione come mera soglia di sopravvivenza, come garanzia solo del “salario minimo biologico”, del “minimo vitale”. Torna così una domanda capitale, e antica: se il lavoro possa essere inteso come pura merce, se la determinazione del suo prezzo possa essere solo affare di mercato, perché la tutela del lavoro, e la cittadinanza sociale che essa implica, interferiscono sul valore di scambio. (15) La risposta costituzionale affidata all’articolo 36, di cui pure si è affermata l’immediata precettività, rischia d’essere respinta sullo sfondo. Viene così oscurato anche il nesso più generale tra rispetto di libertà e dignità e libera costruzione della personalità, che caratterizza l’articolo 2 e alla quale viene finalizzata la stessa garanzia dei diritti fondamentali, facendo emergere anche il nesso con la solidarietà, la componente più trascurata della storica triade rivoluzionaria, la fraternité. Di questa è necessario tener conto in un sistema che si vuole fortemente segnato dall’attenzione per le relazioni, per una dignità non solo individuale, ma sociale, in una Costituzione che, parlando di persona, non intende l’astratto individuo, ma la “persona sociale”. (16) Bisogna chiedersi, a questo punto, se la dignità non sia un fondamento troppo fragile per reggere tante sfide, indebolita dalla sua stessa polisemia, da intime ambiguità, da indeterminatezza. Quest’ultima è la più antica delle critiche, che coinvolge tutti i principi, i concetti appunto “indeterminati”, tecniche come quella delle clausole generali. È un tema che mi riporta alla prolusione maceratese di quarantaquattro anni fa, alla legislazione per principi di cui allora parlavo (17) e che, malgrado incomprensioni che ancora si manifestano e che sono sostanzialmente espressione di una persistente arretratezza culturale, è divenuta tecnica giuridica diffusa e consolidata, che ha trovato piena legittimazione soprattutto grazie al rilievo assunto dalla dimensione costituzionale e dalla interpretazione costituzionalmente orientata, e che si presenta come la risposta più adeguata non solo alle dinamiche indotte da mutamenti e innovazioni continui e vorticosi, ma alle esigenze di una società via via definita dell’incertezza, del rischio, liquida. Questa constatazione, tuttavia, non esime dall’obbligo di fare i conti con l’indeterminatezza, per governare la quale sono state messe a punto tecniche giuridiche ormai ben note. Parlando di dignità, e procedendo per approssimazioni successive, si può partire da una affermazione di carattere generale: la dignità appartiene a tutte le persone, sì che debbono essere considerate illegittime tutte le distinzioni che approdino a considerare alcune vite come non degne, o meno degne d’essere vissute, o che giungano alla negazione stessa della capacità giuridica, tipica delle legislazioni razziali, che hanno confinato milioni di esseri umani nella categoria delle “non persone”. In questa sua prima accezione, la dignità si presenta così come fondamento concreto della nuova accezione della cittadinanza, intesa come patrimonio di diritti che appartengono alla persona quale che sia la sua condizione e il luogo in cui si trova. La negazione di questi diritti viola il principio di dignità. Certo, qui bisogna fare i conti con quello che è stato chiamato «l’abuso del concetto di vita», che ci porta alla questione dell’embrione, certamente irriducibile alla pura dimensione biologica di un insieme di cellule, ma la cui condizione giuridica può essere definita solo attraverso una distinzione tra i diversi stati del corpo, valutandone «la reciproca adeguatezza», (18) e non con operazioni di mera giustapposizione sulla figura di chi è già nato. Una seconda specificazione indica nella dignità il principio che vieta di considerare la persona come mezzo, di strumentalizzarla. Con due ulteriori implicazioni: l’irriducibilità alla sola dimensione del mercato, in particolare per quanto riguarda il corpo come fonte di profitto; e il rispetto dell’autonomia della persona, che non può mai essere «strumento di scopi e oggetto di decisioni altrui». (19) Una terza specificazione può essere effettuata ricorrendo alla individuazione di situazioni specifiche e di figure sintomatiche. È il caso del “decent work”, del lavoro dignitoso di cui parlano i documenti dell’Organizzazione internazionale del lavoro, che ci riporta al tema dell’irriducibilità del lavoro a merce e del lavoratore ad oggetto, e che è il fondamento delle “clausole sociali” previste a livello interno e internazionale. È il caso dei criteri di definizione della dignità sociale desumibili dall’esperienza giurisprudenziale. (20) È il caso del controllo giurisprudenziale sulla compatibilità dell’attività d’impresa con la dignità della persona, nitidamente indicato dall’articolo 41 della Costituzione italiana e che ha avuto una manifestazione significativa nella sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee nella vicenda Omega. È il caso di particolari categorie di contratti, come quelli riguardanti il commercio equo e solidale. In queste ultime situazioni la dignità assume la funzione di misura di che cosa possa rispondere alla logica economica e che cosa sia incompatibile con questo tipo di calcolo. Ma questo controllo delle attività economiche attraverso il principio di dignità ha suscitato la critica di chi vi ha scorto un “ordine morale oppressivo”, la trasformazione della dignità in veicolo di imposizione autoritaria di valori limitativi della libertà e dell’autonomia delle persone. Critica, questa, che sembra incontrare la tesi aggressiva di uno studioso statunitense, che ha enfatizzato a tal punto il conflitto tra libertà e dignità da costruire quest’ultima addirittura come una versione dell’“onore” nazista. (21) Il fraintendimento è clamoroso, ma rivela l’esistenza di un problema. Proprio gli articoli 36 e 41 della Costituzione forniscono una indicazione preziosa per affrontare la questione del rapporto tra libertà e dignità, partendo da una indispensabile distinzione. L’articolo 41 indica nella dignità un limite invalicabile per l’iniziativa economica privata; l’articolo 36 indica il criterio per la costruzione della dignità e per l’individuazione del soggetto al quale spetta questo potere. Ricordo ancora che quest’ultimo articolo parla di «esistenza libera e dignitosa»: e la Corte costituzionale tedesca, nel 1983, ha scritto che «il fulcro dell’ordinamento costituzionale è il valore e la dignità della persona, che agisce con libera determinazione come membro di una società libera». (22) Proprio l’inscindibile associazione tra libertà e dignità esclude una versione autoritaria, impositiva di quest’ultima, una sua funzione sostanzialmente disciplinare. (23) La costruzione dell’homo dignus non può essere effettuata all’esterno della persona, ha davvero il suo fondamento in interiore homine. La dignità non è indeterminata, ma trova nella persona il luogo della sua determinazione, tuttavia non per custodire un’essenza, bensì per mettere ciascuno nella condizione di determinare liberamente il proprio progetto di vita. continua nel post precedente