RACCONTI & OPINIONI

Una domanda e una riflessione è d'obbligo: le rivolte del mondo arabo ci sarebbero state anche senza Internet?


Il ruolo del web nelle rivolte in Tunisia, Egitto e Libia  In molti s'interrogano sul ruolo di internet nelle rivolte in Tunisia, Egitto e Libia. Forse, nella querelle tra "apocalittici" e "integrati", tra chi parla di Twitter revolution e chi ne riduce la portata quasi allo zero, la risposta giusta è nel mezzo Quando tra qualche anno chiederà ai propri genitori i motivi di un nome così bizzarro, forse infastidita dalle prese in giro dei compagni di scuola, farà fatica ad afferarne il senso. La piccola Facebook Ibrahim è nata a febbraio 2011, nell'Egitto appena iberato dal regime del rais Hosni Mubarak. Suo padre, un ragazzo di 20 anni, l'ha voluta chiamare proprio così, Facebook, per rendere omaggio al social network che ha contribuito alla cacciata del tiranno. È una pratica comune, dopo eventi storici, quella di accomunare i festeggiamenti con la nascita di un figlio. Accadde così anche in Italia alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando molti bambini furono battezzati col nome di "Firmato", perché sui manifesti affissi ovunque per celebrare la vittoria sugli austriaci c'era scritto "Firmato Cadorna". Che però si chiamava Luigi. Curioso equivoco, certo, nell'uno e nell'altro caso: come il generale non avrebbe mai vinto il conflitto mondiale senza mille altre risorse, così nel 2011 non è stato certo il web, da solo, a fare la rivoluzione. Anche se senza di esso la strada sarebbe stata sicuramente più tortuosa. Molti s'interrogano in questi giorni sul ruolo che sta giocando Internet nelle rivolte del mondo arabo. Forse, nella querelle tra "integrati" e "apocalittici", tra chi parla di twitter revolution e chi ne riduce la portata quasi allo zero, la risposta giusta è nel mezzo. Tra i sostenitori della seconda teoria c'è Malcolm Gladwell, che in una dettagliata analisi apparsa sul New Yorker qualche mese fa, fa notare come Twitter abbia avuto scarso peso nella recente sommossa della Moldova, paese dove esistono pochissimi account su quel social network. Così come nel caso iraniano dell'"Onda verde", durante il quale i tweet, a ben guardare, arrivavano dai blogger dell'Occidente. La sua teoria è semplice: l'attivismo legato ai social media è fondato su legami deboli, che raramente arrivano a sostenere azioni ad alto rischio come una rivoluzione. Diverso, ad esempio, fu il movimento d'opposizione nella Germania dell'Est, composto di diverse centinaia di piccoli gruppi in contatto limitato gli uni con gli altri. "Tutto quello che sapevano era che nelle notti del lunedì, fuori dalla chiesa di San Nicola nel centro di Lipsia, ci si riuniva per esprimere rabbia verso lo Stato". A quel tempi solo il 13 per cento dei tedeschi dell'Est aveva un telefono, ma la loro motivazione era fortissima. E alla fine quel Muro è caduto. L'altra fondamentale distinzione tra l'attivismo digitale e la sua variante tradizionale è questa: i social media non hanno un'organizzazione gerarchica. Facebook e simili sono strumenti per la creazione di reti, di fatto l'opposto delle gerarchie. A differenza di queste ultime, regolate da norme e procedure precise da rispettare, i network non sono controllati da un'autorità centrale, perdendo così forza d'azione. Per i sostenitori dell'altra tesi, invece, i social media hanno reinventato l'attivismo sociale. Grazie a Facebook e Twitter il tradizionale rapporto tra l'autorità politica e la volontà popolare si è radicalmente capovolto: ora è più facile per i deboli collaborare, coordinarsi, dare voce al malcontento. Non è sicuramente un caso che durante le rivoluzioni del Nord Africa e del Medio Oriente i regimi hanno spento (o tentato di spegnere) le connessioni. Altra constatazione, anche questa difficile da smentire: i social media sono diventati una fonte (spesso primaria) d'informazione verso l'esterno, cosa fino a poco tempo fa impensabile, contribuendo così a smuovere l'opinione pubblica internazionale. Google ha addirittura messo a disposizione numeri di telefono internazionali con i quali arrivare a Twitter, per consentire a chiunque di comunicare in presenza di blocchi e censure del web. E altri siti hanno iniziato subito a tradurre quei messaggi dall'arabo all'inglese, per renderli comprensibili al resto del mondo. Resta dunque la domanda: le rivolte del mondo arabo ci sarebbero state anche senza Internet? Wired ha proposto un sondaggio online. Per il 33 per cento il web è stato solamente "un mezzo", spesso usato dai governi anche per controllare i cittadini: alla fine, è solo la politica a determinare la caduta o meno di un dittatore. Secondo il 67 per cento, invece, senza Internet i dittatori sarebbero ancora lì sul trono: è la Rete a diffondere la protesta e a sfondare le censure. Diffiicile dare maggiore credibilità all'una o all'altra tesi. Piuttosto, sembra ragionevole partire dalla convizione, diffusa nella sociologia della comunicazione, secondo cui il sistema dei media (tutti, comprese radio e tv) vive e si nutre in un rapporto di interdipendenza con la società in un meccanismo di influenza reciproca. L'uno usa l'altro e viceversa. Ma una certezza, almeno una, c'è: tra i sostenitori dei social network un giorno ci sarà anche la piccola Facebook Ibrahim, nata nel 2011. Se non altro per amore paterno.Maurizio Minnucci23/02/2011  www.rassegna.it