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« Gioventù fragile e bruci...Italia o territorio USA?... »

Le «Ossessioni collettive». La grande trasformazione č gią avvenuta, rendendo il web 2.0 una tecnologia del controllo sociale

Post n°6511 pubblicato il 14 Giugno 2012 da cile54

Nel deserto della Rete

 

Le ossessioni del nuovo millennio hanno un potente mezzo per diffondersi, riprodursi e mutare nel corso del tempo. Internet è infatti il medium che dà forma compiuta, cioè una architettura software a speranze, timori, nevrosi che come un torrente si ingrossa per gettarsi nel grande mare dell’immaginario collettivo. È questa la premessa, implicita, da cui parte l’ultimo saggio di Geert Lovink, pubblicato dalla casa editrice Egea con il titolo Ossessioni collettive (pp. 277, euro 26), che coglie sicuramente un filo rosso che attraversa capitoli tematici che spaziano dalla «Psicopatologia del sovraccarico d’informazione» all’«Estetica del video online», alla «Vita googlizattata nella società della consultazione online», solo per citarne alcuni. Ognuno di loro può essere letto senza necessariamente leggere gli altri, anche se il filo rosso che li unisce è dato dal titolo originale – Networks Without Cause, reti senza una causa -, che denuncia la crisi di una teoria critica della Rete di cui Lovink è stato uno dei più interessanti e qualificati esponenti.

Olandese di nascita, ma «cervello in circolazione» per scelta – ha insegnato in università tedesche, australiane, ha promosso seminari itineranti che hanno avuto come tappe atenei statunitensi, spagnoli, brasiliani, inglesi, indiani, austriaci, cinesi – Geert Lovink è infatti connesso alla Rete da sempre. Ne ha registrato lo sviluppo mettendo in campo una attitudine critica che lo ha reso,appunto, uno degli studiosi più sensibili alle ambivalenze, le contraddizioni e gli effetti collaterali del cyberspazio, Non ha infatti mai sostenuto che Internet fosse la «Nuova Gerusalemme», cioè l’agognata terra promessa governata da principì di assoluta libertà e eguaglianza; anche se ha sempre sottolineato come la Rete potesse essere un mezzo per veicolare principi di libertà e eguaglianza. Né ha mai ritenuto che i modelli economici sperimentati dalla Rete prefigurassero il superamento del capitalismo, sostenendo tuttavia la necessità di sviluppare forme economiche che prendessero congedo dal lavoro salariato. Se si dovesse usare un’immagine per riassumere il suo percorso teorico, questa avrebbe molto a che fare con un vascello che mantiene una rotta che viene continuamente messa alla prova da tempeste e burrasche. Ha quindi più volte deviato dalla rotta, per poi ritornare sui suoi passi, annotando le forme di vita, digitali va da sé, presenti nelle terre visitate dopo aver fatto sosta per fare rifornimento o per riparare i guasti al vascello provocati dal mare in tempesta.

 

Narcisismo di massa

È dunque un teorico, ma anche un cartografo della Rete, nonché un attento storico del presente digitale che ha scelto come forma narrativa il diario di viaggio. Così, ha potuto affermare che Internet non è il paradiso (Apogeo edizioni), oppure che la crisi del 2001 metteva in evidenza il lato oscuro della Rete (Dark Fiber, Luca Sossella Edizioni), mentre annotava ironicamente che il narcisismo tipico della blogsfera non si fermava davanti neppure ai Zero comments (Bruno Mondadori) riservati agli estensori dei diari personali. E questo solo per segnalare i testi tradotti, tralasciando dunque tutti gli altri che dal 2000 ad oggi hanno scandito, anno per anno, la sua navigazione su Internet, durante la quale Lovink ha sempre messo in relazione la vita dentro lo schermo con percorsi teorici avviati per interpretare la «grande trasformazione». Da qui il serrato confronto con le tesi di Slavoj Zizek, Alain Badiou, la riflessione attorno alla biopolitica di Michel Foucault, la dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer o il postoperaismo. Questa attenzione al pensiero critico è una costante nell’opera di Lovink, attraverso la quale ha precisato un punto di vista che non concede nulla al determinismo tecnologico di tante analisi della Rete. La messa in relazione della vita digitale con le teorie critiche del capitalismo è inoltre servito a definire lo statuto disciplinare della network culture in un contesto accademico che ha guardato a Internet come un nuovo media, rimuovendo così la vocazione «universale» di un medium che non vuole solo rappresentare la realtà, bensì, benjaminamente a produrla.

 

I gadget convergenti

Tutto ciò però appartiene però al passato. Questo Ossessioni collettive ritiene infatti che la «grande trasformazione» annunciata alla fine del Novecento si è compiuta. Inutile, quindi, riproporre la dicotomia tra virtuale e reale come fanno ancora alcuni seguaci di Marshall McLuahn; così come è vano quel invitare a compiere quel movimento teorico che punta a sviluppare un’analisi del presente a partire dalle tendenze presenti in Rete, ritenuta solo un laboratorio sociale e economico del nuovo capitalismo che attende di sfornare prototipi da mettere alla prova della realtà. Viviamo, lavoriamo ormai tutti nel fiume di informazioni, dati, conoscenza originati nella Rete e che da essa ha ormai esondati per diffondersi ovunque. Questo fiume rende gli uomini e le donne prigionieri dell’«istante eterno», cioè quel just in time che modella le relazioni sociali e i rapporti affettivi, amicali. Il personal computer è così un manufatto che appartiene all’archeologia del digitale,perché la miniaturizzazione dell’hardware ha reso telefoni cellulari, lavatrici, frigoriferi, televisioni il letto di quel fiume originario della Rete.

La cosiddetta convergenza tecnologica tra informatica e telecomunicazioni è sempre all’opera, costituendo l’habita socio-tecnico sia per la produzione en general che per le relazioni sociale. Da qui, il sovraccarico di informazioni che produce stress, ma che è anche l’elemento fondamentale nonché limite strutturale del capitalismo neoliberista. Mai come in questi anni, l’economia dell’attenzione, annota Lovink, ha goduto di così tanto successo tra economisti mainstream, filosofi e teorici dei media.

Geert Lovink non è però interessato alle ultime novità tecnologiche, sia che si tratti di smartphone, iPhone o iPad. Non subisce cioè il fascino dell’ultimo gadget. È semmai interessato a monitorare criticamente di il mutamento dei rapporti sociali. Per fare questo analizza l’opzione «mi piace» del social network Facebook.

 

La sconfitta di Facebook

Il semplice gesto di clickare su quell’opzione è l’esemplificazione di come Internet, più che promuovere l’incontro con l’Altro da sé, spinga invece a costituire tribù di uomini e donne che non vogliono fare esperienza della diversità. Si scelgono gli amici in base a profili simili ai propri, sbarrando la strada a qualsiasi incontro imprevisto. Anni luce da quella tensione libertaria degli esordi della Rete. Su Internet infatti si costituiscono «comunità recintate» come avviene nei processi di «gentrificazione» metropolitana. Allo stesso tempo, Facebook produce simulacri di socialità basati su profili individuali standardizzati e forme deboli di militanza politica.

Il saggio di Lovink è stato mandato alle stampe quando l’annuncio della quotazione in borsa di Facebook era solo una possibilità a portata di mano che veniva salutata come la dimostrazione che il web 2.0 usciva dalla sua adolescenza per entrare nella maturità. Pochi avrebbero immaginato che la quotazione e la vendita delle azioni della società di Mark Zuckerberg sarebbe stata un fallimento. Il flop borsistico del social network potrebbe trovare una spiegazione proprio in quella ripetizione senza differenza che Lovink segnala come elemento costitutivo dello stare in Rete. Dunque una socialità che si esprime all’interno di un modello imprenditoriale che la impoverisce, standardizza per renderla l’habitat migliore per le inserzioni pubblicitarie, il vero business di Facebook. Ma anche di Google e di Twitter, espressioni di quell’«internet in tempo reale» che ha preso avvio dopo l’11 Settembre.

L’attacco alla Torri Gemelle sono ritenute da Lovink un vero e proprio spartiacque nella Rete. Da allora i social network puntano sì a trasformare in attività economica la comunicazione online, ma si trasformano anche in tecnologia del controllo sociale. Da qui la discussione serrata dell’autore sulle proposte di disconnessione dalla rete per consentire di riconquistare la sovranità sull’informazione dopo che è stata espropriata dalle big corporation. Lovink è però estremamente scettico verso le potenzialità politiche delle proposte di costituire zone temporaneamente autonome nella Rete. Lo smarrimento dopo l’attacco alle Twin Towers è stato sintetizzato da Slovoj Zizek nella fortunata espressione «benvenuti nell’universo del reale», che può tranquillamente essere cambiata in «benvenuti nella miseria della Rete», indicando con questo il fatto che l’11 settembre coincide proprio a quell’esondazione del flusso informativo – dati, immagini, suoni, analisi – dalla Rete al mondo al di fuori dello schermo. Non c’è più quindi distinzione tra virtuale e reale. Allo stesso tempo è urgente elaborare nuove tattiche di resistenza che assumano come un principio di realtà il venire meno del confine tra dentro e fuori la Rete. Così facendo, però, l’ordine dei problemi a poco a vedere con la vita digitale, bensì con l’agire politico, le forme organizzate del conflitto, insomma con i rapporti sociali di produzione. Ed è su questo crinale che l’analisi di Lovink mostra però la sua fragilità.

Lovink usa il concetto di «reti organizzate»sviluppato da Ned Rossiter – di cui in Italia è stato pubblicato Reti organizzate (manifestolibri) – per indicare una via d’uscita dal carattere effimero dei momenti aggregativi originati della Rete. Da qui la centralità del momento organizzativo per definire le modalità delle relazioni sociali, l’alternarsi tra indipendenza dei singoli e la costruzione dell’autonomia della cooperazione sociale o di una rete politica dal potere dominante. Ma anche come un brain storming teso a definire obiettivi (sociali, politici, culturali), nonché la scansione tra tattica e strategia per raggiungerli. La rete organizzata è dunque da considerare un antidoto all’«attivismo da salotto» o alla retorica che spiega i recenti movimenti sociali come appendici della comunicazione in Rete.

Le rivolte tunisine, egiziane, ma anche Occupy Wall Street o gli indignados non sono state però esperienze organizzate dalla rete, ma sono semmai esemplificazioni della fine della dicotomia tra virtuale e reale. Il cosiddetto web 2.0 altro non è che la centralità della Rete nella comunicazione che ha un carattere tuttavia caotico, discontinuo nel tempo, effimero, dando vita a cloud computing, le nuvole di dati, che le multinazionali di Internet e dell’entertainment cercano di orientare e governare per fare affari. I movimenti sociali si sono quindi posti il problema di come condizionare il modo di produzione dell’opinione pubblica che si sta affermando nella vita associata – l’interattività e la comunicazione «molti a molti» – e che ha come vettore l’avvenuta convergenza tra Rete, i telefoni cellulari, ma anche i consolidati mass-media dell’era industriale (radio e tv).

 

Prigionieri del reale

I movimenti sociali sono quindi riusciti a condizionare le cloud computing, ma il loro successo è stato tuttavia effimero. La rete organizzata non è quindi la soluzione del problema, semmai indica una potenzialità e una possibile direzione che ha tuttavia bisogno di ulteriori coordinate per evitare la navigazione a vista che spesso caratterizza i movimenti sociali che da tempo hanno deciso di non «odiare i media, ma di diventare essi stessi media». E queste coordinate hanno proprio a che fare con i rapporti sociali di produzione.

L’assenza di un confine tra virtuale e reale, tra vita dentro e fuori lo schermo pone così al centro della scena proprio l’intelligenza collettiva e la cooperazione sociale in quanto materie prime della produzione della ricchezza. Il modo di produzione dell’opinione pubblica è cioè un’attività produttiva scandita da lavoro salariato, enclosures della conoscenza sans phrase, precarietà, manipolazione e controllo sociale. Temi attorno ai quali la teoria critica della Rete spesso ha ben poco da dire, ripiegando su una esaltazione dei flussi di dati come bestia ribelle che non tollera di essere addomesticata. Dimenticando, cioè, che è proprio per rispondere a questa indisponibilità al controllo che Google, Apple, Microsoft, Facebook hanno messo in campo strategie per espropriare ciò che è prodotto nella Rete, cioè la comunicazione, la conoscenza, la socialità. Le reti organizzate devono hanno dunque come sfida la riappropriazione di questo comune su cui si basa la produzione di opinione pubblica. Se non fa questo, l’attitudine critica giustamente auspicata da Lovink è ridotta a ornamento di un divenire della Rete. È cioè ridotta a opinione pubblica, cioè quel modo di essere spettatore passivo dell’esercizio del potere che nega l’azione politica e la trasformazione del reale.

Benedetto Vecchi

13/06/2012 www.ilmanifesto.it

 
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