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Messaggi del 14/06/2012

 
 

Italia o territorio USA? Gli incidenti che vedono protagonisti gli aerei senza pilota stanno crescendo in numero e gravità.

Post n°6512 pubblicato il 14 Giugno 2012 da cile54

Invasione di droni nei cieli della Sicilia

 

Droni, droni e ancora droni. Sarà intensissimo, in estate, il via vai di aerei militari senza pilota sui cieli siciliani. Decine di decolli ed atterraggi nella base USA e NATO di Sigonella che faranno impazzire il traffico aereo nel vicino scalo civile di Catania Fontanarossa. Grandi aerei spia del tipo Global Hawk e i Predator e i Reaper carichi di bombe e missili che sorvoleranno l'isola e solcheranno i mari, pregiudicando la sicurezza dei voli e delle popolazioni.

 

Le notificazioni ai piloti di aeromobili (NOTAM) emesse lo scorso 4 giugno lasciano presagire tragici scenari di guerra in Siria e nell'intero scacchiere mediterraneo e mediorientale. Tre riguardano lo scalo di Fontanarossa e sono distinti dai codici B4048, B4049 e B4050. Impongono la sospensione delle procedure strumentali standard nelle fasi di accesso, partenza e arrivo degli aerei, tutti i giorni sino al prossimo 1 settembre, "causa attività degli Unmanned Aircraft", i famigerati aerei senza pilota in dotazione alle forze armate statunitensi e italiane. "Le restrizioni sopra menzionate verranno applicate su basi tattiche dall'aeroporto di Catania", specificano i NOTAM. Che le operazioni dei droni riguardino la stazione aeronavale di Sigonella, lo si apprende da un altro avviso, codice M3066/12, che ordina la sospensione di tutte le strumentazioni standard al decollo e all'atterraggio nel Sigonella Airport, dal 4 giugno all'1 settembre 2012, "per l'attività di Unmanned Aircraft militari". Il grande scalo delle forze USA e NATO subirà inoltre "restrizioni al traffico aereo", nei giorni 19 e 20 giugno, per una vasta esercitazione aeronavale nel Mediterraneo. Gli ennesimi giochi di guerra alleati che potrebbero annunciare l'attacco finale al regime di Assad.

 

"Quelle oggetto nei NOTAM relativi all'aeroporto di Catania, sono di aerei militari senza pilota italiani o americani a Sigonella?", chiede l'Associazione Antimafie "Rita Atria" che per prima ha rilevato l'intensissima attività dei droni in Sicilia. "L'Amministrazione Obama usa questi velivoli anche per uccidere presunti terroristi e in queste missioni ci sono sempre i cosiddetti effetti collaterali: uccisioni di bambini, donne e uomini innocenti civili. Conta ancora qualcosa la volontà popolare in Italia? Noi non abbiamo dato mandato a nessuno in Parlamento di autorizzare gli aerei senza pilota a fare quello che vogliono in occasione di guerre come quella in Libia e in Afghanistan, volando nel nostro spazio aereo e ponendo gravi limitazioni al traffico aereo civile. Per questo dobbiamo mobilitarci contro i droni, per smilitarizzare i nostri territori e riprenderci la nostra sovranità che ci hanno dato i Padri Costituenti".

 

"Con la trasformazione di Sigonella in capitale mondiale degli aerei senza pilota e l'installazione a Niscemi del terminale terrestre del MUOS, il nuovo sistema satellitare della marina militare USA, la Sicilia diviene l'epicentro delle guerre globali e permanenti del XXI secolo", commenta Alfonso Di Stefano della Campagna per la smilitarizzazione. "Attualmente sono schierati a Sigonella due o tre Global Hawk dell'US Air Force. Entro il 2015, però, diverranno operativi l'AGS, il sistema di sorveglianza terrestre della NATO e il Broad Area Maritime Surveillance (BAMS) di US Navy e i grandi aerei-spia saranno più di una ventina. Che ne sarà allora del traffico aereo civile nell'isola che già oggi è pesantemente limitato dalle spericolate operazioni belliche dei droni italiani e stranieri?".

 

Due anni fa, l'Aeronautica militare e l'ente nazionale per l'aviazione civile (Enac) siglarono un accordo tecnico per l'attività di aeronavigazione nello spazio aereo italiano dei Global Hawk schierati a Sigonella nell'ambito dell'accordo Italia-Stati Uniti del 2008. Senza attendere una normativa europea che disciplini in via definitiva l'impiego degli aeromobili a pilotaggio remoto nel sistema del traffico aereo generale, l'accordo ha consentito l'impiego dei droni nell'ambito di spazi aerei "determinati" e con l'adozione di procedure di coordinamento tra autorità civili e militari "tese a limitare al massimo l'impatto sulle attività aeree civili". All'Aeronautica militare è stata attribuita la "predisposizione degli spazi aerei necessari all'impiego operativo ed addestrativo dei velivoli militari a pilotaggio remoto", mentre l'Enac dovrebbe curare in coordinamento con l'Enav (ente nazionale per l'assistenza al volo) gli aspetti di gestione e controllo del traffico aereo generale.

 

Il testo del documento è simile a quello che era stato siglato nel novembre 2008 per le operazioni di volo dei Predator in dotazione al 32° Stormo Ami di Amendola (Foggia), utilizzati nella guerra in Afghanistan e più recentemente in Libia. Secondo gli accordi, i profili delle missioni, le procedure operative, le aree di lavoro e gli equipaggiamenti, dovrebbero essere stabiliti "nel rispetto dei principi della sicurezza del volo", anche se è poi precisato che in caso di "operazioni connesse a situazioni di crisi o di conflitto armato" l'impiego dei droni non può essere sottoposto a limitazioni di alcun genere. E questo nonostante i velivoli telecomandati rappresentino un rischio insostenibile per il traffico civile e le popolazioni che risiedono nelle vicinanze degli scali utilizzati per le manovre di decollo e atterraggio.

 

"Effettivamente il rateo d'incidenti dei sistemi aerei senza pilota (UAS) non è incoraggiante per poter essere ottimisti sui tempi di integrazione di questi sistemi nello spazio aereo nazionale", ammette il maggiore dell'aeronautica Luigi Caravita in una recente ricerca sui droni pubblicata per il Centro Militare di Studi Strategici (Cemis). "Da fonti ufficiali si apprende che nelle prime 100.000 ore di volo il tasso d'incidente del MQ-1 Predator ammontava a 28, oltre il doppio del cacciabombardiere F16. Altri sistemi a pilotaggio remoto come il Pioneer, l'Hunter e l'RQ-7 Shadow hanno invece un rateo di incidenti di almeno uno-due ordini di grandezza superiore".

 

"La mancanza di una capacità matura di sense & avoid (senti ed evita) verso altro traffico può diventare ancor più critica se associata alla vulnerabilità o alla perdita del data link tra segmento di terra e segmento di volo: in più di un occasione un Predator è stato perso a seguito d'interruzione del data link", aggiunge il maggiore Caravita. "Ad oggi gli UAS militari non sono autorizzati a volare, se non in spazi aerei segregati, perché non hanno una banda aeronautica protetta, non sono ancora considerati sufficientemente affidabili, non sono dotati di una tecnologia sense & avoid matura, non hanno ancora totalizzato un numero di ore di volo sufficiente da costituire un safety case rappresentativo e convincente, non è stata ancora dimostrata adeguata resistenza da attacchi di cyber warfare".

 

Analoghe considerazioni sono state fatte dal comando generale di US Air Force nel documento che delinea la visione strategica sull'utilizzo di questi sistemi di guerra(The U.S. Air Force Remotely Piloted Aircraft and Unmanned Aerial Vehicle - Strategic Vision). "I velivoli senza pilota sono sensibili alle condizioni ambientali estreme e vulnerabili alle minacce rappresentate da armi cinetiche e non cinetiche", scrivono i militari USA. "Il rischio d'incidente del Predator e del Global Hawk è d'intensità maggiore di quello dei velivoli con pilota dell'US Air Force, anche se al di sotto dei parametri stabiliti nei documenti di previsione operativa per questi sistemi".

 

In verità, gli incidenti che vedono protagonisti gli aerei senza pilota stanno crescendo in numero e gravità. In particolare si annoverano due collisioni nei cieli dell'Afghanistan, la prima nel 2004 tra un drone ed un Airbus 320 e più recentemente (agosto 2011) tra un aereo da trasporto militare C130 statunitense ed un RQ-7 Shadow. I Predator e i Reaper sembrano avere una certa predisposizione a perdere il controllo e precipitare rovinosamente al suolo o nei mari. E precipitano pure i Global Hawk: nel marzo 1999 un velivolo dell'US Air Force si è schiantato in California da un'altitudine di 12.500 metri dopo aver ricevuto un segnale spurio di "termine missione" dalla base aerea di Nellis. Ieri 11 giugno, è toccato a un dimostratore BAMS di US Navy ad essere inghiottito dalle acque del Nanticoke River, vicino l'isola di Bloodsworth, Maryland. Il velivolo, una versione modificata del Global Hawk RQ-4 operativo con l'aeronautica militare, era stato schierato nella stazione aeronavale di Patuxent River, nell'ambito del cosiddetto programma di sviluppo Broad Area Maritime Surveillance che prevede il trasferimento a breve di cinque aerei UAV di US Navy nella base di Sigonella.

 

Antonio Mazzeo

12/06/2012 www.peacelink.it

 
 
 

Le «Ossessioni collettive». La grande trasformazione è già avvenuta, rendendo il web 2.0 una tecnologia del controllo sociale

Post n°6511 pubblicato il 14 Giugno 2012 da cile54

Nel deserto della Rete

 

Le ossessioni del nuovo millennio hanno un potente mezzo per diffondersi, riprodursi e mutare nel corso del tempo. Internet è infatti il medium che dà forma compiuta, cioè una architettura software a speranze, timori, nevrosi che come un torrente si ingrossa per gettarsi nel grande mare dell’immaginario collettivo. È questa la premessa, implicita, da cui parte l’ultimo saggio di Geert Lovink, pubblicato dalla casa editrice Egea con il titolo Ossessioni collettive (pp. 277, euro 26), che coglie sicuramente un filo rosso che attraversa capitoli tematici che spaziano dalla «Psicopatologia del sovraccarico d’informazione» all’«Estetica del video online», alla «Vita googlizattata nella società della consultazione online», solo per citarne alcuni. Ognuno di loro può essere letto senza necessariamente leggere gli altri, anche se il filo rosso che li unisce è dato dal titolo originale – Networks Without Cause, reti senza una causa -, che denuncia la crisi di una teoria critica della Rete di cui Lovink è stato uno dei più interessanti e qualificati esponenti.

Olandese di nascita, ma «cervello in circolazione» per scelta – ha insegnato in università tedesche, australiane, ha promosso seminari itineranti che hanno avuto come tappe atenei statunitensi, spagnoli, brasiliani, inglesi, indiani, austriaci, cinesi – Geert Lovink è infatti connesso alla Rete da sempre. Ne ha registrato lo sviluppo mettendo in campo una attitudine critica che lo ha reso,appunto, uno degli studiosi più sensibili alle ambivalenze, le contraddizioni e gli effetti collaterali del cyberspazio, Non ha infatti mai sostenuto che Internet fosse la «Nuova Gerusalemme», cioè l’agognata terra promessa governata da principì di assoluta libertà e eguaglianza; anche se ha sempre sottolineato come la Rete potesse essere un mezzo per veicolare principi di libertà e eguaglianza. Né ha mai ritenuto che i modelli economici sperimentati dalla Rete prefigurassero il superamento del capitalismo, sostenendo tuttavia la necessità di sviluppare forme economiche che prendessero congedo dal lavoro salariato. Se si dovesse usare un’immagine per riassumere il suo percorso teorico, questa avrebbe molto a che fare con un vascello che mantiene una rotta che viene continuamente messa alla prova da tempeste e burrasche. Ha quindi più volte deviato dalla rotta, per poi ritornare sui suoi passi, annotando le forme di vita, digitali va da sé, presenti nelle terre visitate dopo aver fatto sosta per fare rifornimento o per riparare i guasti al vascello provocati dal mare in tempesta.

 

Narcisismo di massa

È dunque un teorico, ma anche un cartografo della Rete, nonché un attento storico del presente digitale che ha scelto come forma narrativa il diario di viaggio. Così, ha potuto affermare che Internet non è il paradiso (Apogeo edizioni), oppure che la crisi del 2001 metteva in evidenza il lato oscuro della Rete (Dark Fiber, Luca Sossella Edizioni), mentre annotava ironicamente che il narcisismo tipico della blogsfera non si fermava davanti neppure ai Zero comments (Bruno Mondadori) riservati agli estensori dei diari personali. E questo solo per segnalare i testi tradotti, tralasciando dunque tutti gli altri che dal 2000 ad oggi hanno scandito, anno per anno, la sua navigazione su Internet, durante la quale Lovink ha sempre messo in relazione la vita dentro lo schermo con percorsi teorici avviati per interpretare la «grande trasformazione». Da qui il serrato confronto con le tesi di Slavoj Zizek, Alain Badiou, la riflessione attorno alla biopolitica di Michel Foucault, la dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer o il postoperaismo. Questa attenzione al pensiero critico è una costante nell’opera di Lovink, attraverso la quale ha precisato un punto di vista che non concede nulla al determinismo tecnologico di tante analisi della Rete. La messa in relazione della vita digitale con le teorie critiche del capitalismo è inoltre servito a definire lo statuto disciplinare della network culture in un contesto accademico che ha guardato a Internet come un nuovo media, rimuovendo così la vocazione «universale» di un medium che non vuole solo rappresentare la realtà, bensì, benjaminamente a produrla.

 

I gadget convergenti

Tutto ciò però appartiene però al passato. Questo Ossessioni collettive ritiene infatti che la «grande trasformazione» annunciata alla fine del Novecento si è compiuta. Inutile, quindi, riproporre la dicotomia tra virtuale e reale come fanno ancora alcuni seguaci di Marshall McLuahn; così come è vano quel invitare a compiere quel movimento teorico che punta a sviluppare un’analisi del presente a partire dalle tendenze presenti in Rete, ritenuta solo un laboratorio sociale e economico del nuovo capitalismo che attende di sfornare prototipi da mettere alla prova della realtà. Viviamo, lavoriamo ormai tutti nel fiume di informazioni, dati, conoscenza originati nella Rete e che da essa ha ormai esondati per diffondersi ovunque. Questo fiume rende gli uomini e le donne prigionieri dell’«istante eterno», cioè quel just in time che modella le relazioni sociali e i rapporti affettivi, amicali. Il personal computer è così un manufatto che appartiene all’archeologia del digitale,perché la miniaturizzazione dell’hardware ha reso telefoni cellulari, lavatrici, frigoriferi, televisioni il letto di quel fiume originario della Rete.

La cosiddetta convergenza tecnologica tra informatica e telecomunicazioni è sempre all’opera, costituendo l’habita socio-tecnico sia per la produzione en general che per le relazioni sociale. Da qui, il sovraccarico di informazioni che produce stress, ma che è anche l’elemento fondamentale nonché limite strutturale del capitalismo neoliberista. Mai come in questi anni, l’economia dell’attenzione, annota Lovink, ha goduto di così tanto successo tra economisti mainstream, filosofi e teorici dei media.

Geert Lovink non è però interessato alle ultime novità tecnologiche, sia che si tratti di smartphone, iPhone o iPad. Non subisce cioè il fascino dell’ultimo gadget. È semmai interessato a monitorare criticamente di il mutamento dei rapporti sociali. Per fare questo analizza l’opzione «mi piace» del social network Facebook.

 

La sconfitta di Facebook

Il semplice gesto di clickare su quell’opzione è l’esemplificazione di come Internet, più che promuovere l’incontro con l’Altro da sé, spinga invece a costituire tribù di uomini e donne che non vogliono fare esperienza della diversità. Si scelgono gli amici in base a profili simili ai propri, sbarrando la strada a qualsiasi incontro imprevisto. Anni luce da quella tensione libertaria degli esordi della Rete. Su Internet infatti si costituiscono «comunità recintate» come avviene nei processi di «gentrificazione» metropolitana. Allo stesso tempo, Facebook produce simulacri di socialità basati su profili individuali standardizzati e forme deboli di militanza politica.

Il saggio di Lovink è stato mandato alle stampe quando l’annuncio della quotazione in borsa di Facebook era solo una possibilità a portata di mano che veniva salutata come la dimostrazione che il web 2.0 usciva dalla sua adolescenza per entrare nella maturità. Pochi avrebbero immaginato che la quotazione e la vendita delle azioni della società di Mark Zuckerberg sarebbe stata un fallimento. Il flop borsistico del social network potrebbe trovare una spiegazione proprio in quella ripetizione senza differenza che Lovink segnala come elemento costitutivo dello stare in Rete. Dunque una socialità che si esprime all’interno di un modello imprenditoriale che la impoverisce, standardizza per renderla l’habitat migliore per le inserzioni pubblicitarie, il vero business di Facebook. Ma anche di Google e di Twitter, espressioni di quell’«internet in tempo reale» che ha preso avvio dopo l’11 Settembre.

L’attacco alla Torri Gemelle sono ritenute da Lovink un vero e proprio spartiacque nella Rete. Da allora i social network puntano sì a trasformare in attività economica la comunicazione online, ma si trasformano anche in tecnologia del controllo sociale. Da qui la discussione serrata dell’autore sulle proposte di disconnessione dalla rete per consentire di riconquistare la sovranità sull’informazione dopo che è stata espropriata dalle big corporation. Lovink è però estremamente scettico verso le potenzialità politiche delle proposte di costituire zone temporaneamente autonome nella Rete. Lo smarrimento dopo l’attacco alle Twin Towers è stato sintetizzato da Slovoj Zizek nella fortunata espressione «benvenuti nell’universo del reale», che può tranquillamente essere cambiata in «benvenuti nella miseria della Rete», indicando con questo il fatto che l’11 settembre coincide proprio a quell’esondazione del flusso informativo – dati, immagini, suoni, analisi – dalla Rete al mondo al di fuori dello schermo. Non c’è più quindi distinzione tra virtuale e reale. Allo stesso tempo è urgente elaborare nuove tattiche di resistenza che assumano come un principio di realtà il venire meno del confine tra dentro e fuori la Rete. Così facendo, però, l’ordine dei problemi a poco a vedere con la vita digitale, bensì con l’agire politico, le forme organizzate del conflitto, insomma con i rapporti sociali di produzione. Ed è su questo crinale che l’analisi di Lovink mostra però la sua fragilità.

Lovink usa il concetto di «reti organizzate»sviluppato da Ned Rossiter – di cui in Italia è stato pubblicato Reti organizzate (manifestolibri) – per indicare una via d’uscita dal carattere effimero dei momenti aggregativi originati della Rete. Da qui la centralità del momento organizzativo per definire le modalità delle relazioni sociali, l’alternarsi tra indipendenza dei singoli e la costruzione dell’autonomia della cooperazione sociale o di una rete politica dal potere dominante. Ma anche come un brain storming teso a definire obiettivi (sociali, politici, culturali), nonché la scansione tra tattica e strategia per raggiungerli. La rete organizzata è dunque da considerare un antidoto all’«attivismo da salotto» o alla retorica che spiega i recenti movimenti sociali come appendici della comunicazione in Rete.

Le rivolte tunisine, egiziane, ma anche Occupy Wall Street o gli indignados non sono state però esperienze organizzate dalla rete, ma sono semmai esemplificazioni della fine della dicotomia tra virtuale e reale. Il cosiddetto web 2.0 altro non è che la centralità della Rete nella comunicazione che ha un carattere tuttavia caotico, discontinuo nel tempo, effimero, dando vita a cloud computing, le nuvole di dati, che le multinazionali di Internet e dell’entertainment cercano di orientare e governare per fare affari. I movimenti sociali si sono quindi posti il problema di come condizionare il modo di produzione dell’opinione pubblica che si sta affermando nella vita associata – l’interattività e la comunicazione «molti a molti» – e che ha come vettore l’avvenuta convergenza tra Rete, i telefoni cellulari, ma anche i consolidati mass-media dell’era industriale (radio e tv).

 

Prigionieri del reale

I movimenti sociali sono quindi riusciti a condizionare le cloud computing, ma il loro successo è stato tuttavia effimero. La rete organizzata non è quindi la soluzione del problema, semmai indica una potenzialità e una possibile direzione che ha tuttavia bisogno di ulteriori coordinate per evitare la navigazione a vista che spesso caratterizza i movimenti sociali che da tempo hanno deciso di non «odiare i media, ma di diventare essi stessi media». E queste coordinate hanno proprio a che fare con i rapporti sociali di produzione.

L’assenza di un confine tra virtuale e reale, tra vita dentro e fuori lo schermo pone così al centro della scena proprio l’intelligenza collettiva e la cooperazione sociale in quanto materie prime della produzione della ricchezza. Il modo di produzione dell’opinione pubblica è cioè un’attività produttiva scandita da lavoro salariato, enclosures della conoscenza sans phrase, precarietà, manipolazione e controllo sociale. Temi attorno ai quali la teoria critica della Rete spesso ha ben poco da dire, ripiegando su una esaltazione dei flussi di dati come bestia ribelle che non tollera di essere addomesticata. Dimenticando, cioè, che è proprio per rispondere a questa indisponibilità al controllo che Google, Apple, Microsoft, Facebook hanno messo in campo strategie per espropriare ciò che è prodotto nella Rete, cioè la comunicazione, la conoscenza, la socialità. Le reti organizzate devono hanno dunque come sfida la riappropriazione di questo comune su cui si basa la produzione di opinione pubblica. Se non fa questo, l’attitudine critica giustamente auspicata da Lovink è ridotta a ornamento di un divenire della Rete. È cioè ridotta a opinione pubblica, cioè quel modo di essere spettatore passivo dell’esercizio del potere che nega l’azione politica e la trasformazione del reale.

Benedetto Vecchi

13/06/2012 www.ilmanifesto.it

 
 
 

Gioventù fragile e bruciata. Un commento ai dati sull’assunzione di psicofarmaci nelle giovani generazioni

Post n°6510 pubblicato il 14 Giugno 2012 da cile54

Non solo studenti

Se non fossimo abituati a macinare notizie, dati, numeri, sensazioni e sentimenti in un unico calderone che perde, di passaggio in passaggio, di lettura in lettura, di voce in voce, il proprio significato, meriterebbe molta più attenzione di quella che ha suscitato la notizia, pubblicata qualche giorno fa da Repubblica, secondo la quale, in base ad uno studio dell’istituto di Fisiologia Clinica del Cnr di Pisa, il 6% degli studenti italiani usa psicofarmaci senza prescrizione medica.

Di essi, 80mila circa sarebbero consumatori abituali. È un dato allarmante ed estremamente drammatico, che ci butta in faccia una realtà della quale intuitivamente tutti eravamo più o meno consapevoli: il dilagare di una fragilità in cerca di risposte facili ed immediate.

La fragilità inizia nella famiglia: è lì che i ragazzi prevalentemente si approvvigionerebbero, ricorrendo a condotte che vedono concretizzate dai genitori ed entrando spesso a contatto con una visione della medicalizzazione del disagio quantomeno superficiale e fuorviante. La fragilità è poi incentivata, esasperata, dall’uso incauto della rete, che ne consente l’acquisto.

La pratica sarebbe abituale, quotidiana, con scambi a scuola, una maggiore frequenza tra le ragazze, una predilezione particolare per i tranquillanti. L’iniziazione avverrebbe intorno ai 15 anni, propiziata anche dalla facilità del reperimento e dalla relativa ma significativa diffusione del rituale. D’altra parte, qualche giorno prima della pubblicazione dei dati, il Dipartimento di Salute Pubblica dell’Università di Torino aveva rivelato come l’ansia da interrogazione o da compito in classe evidenziasse tra gli studenti piemontesi la propensione all’uso di psicofarmaci.

La fragilità viene probabilmente incrementata poi da una ritrosia da parte della scuola a porsi di fronte al cambiamento antropologico del profilo medio dello studente. Esiste forse un motivo se le generazioni dimostrano una capacità sempre più inadeguata di reagire alla fatica che un apprendimento significativo comporta, a fronte di una richiesta da parte della scuola sempre meno esigente e intransigente. Forse sarebbe il caso di investire – senza giudicare, senza stigmatizzare, senza etichettare – in maniera più intensiva sulla relazione e sulla cura.

La fragilità trova poi la sua più grande alleata nell’idea che la fragilità stessa sia un disvalore e non un indicatore di sensibilità e sofferenza, a cui occorrerebbe semmai fornire delle risposte complesse. Perché la fragilità non deve diventare un alibi, ma non è un disvalore. Non è un incidente, da sanare con mezzi che stanno fuori di noi; attraverso interventi esterni, cui si affida – per superficialità, per fretta, per ignavia, per incapacità, per debolezza – la soluzione di problemi che sono dentro al ragazzo e che l’ambiente in cui vive non lo aiuta ad affrontare.

Questi dati esortano famiglia, scuola, società alla riflessione. E tutti noi a ricordare, come scrive François Dubet, che, qualsiasi siano le cause di questo enorme disagio, «a scuola non entrano studenti, ma giovani».

Marina Boscaino

da Adista (segni nuovi n.23):

13|06|12

www.womenews.net

 
 
 

L’astensione obbligatoria per maternità viene equiparata all’assenza per malattia. I sindacati sottoscrivono, pazzesco!

Post n°6509 pubblicato il 14 Giugno 2012 da cile54

Poste italiane, taglio della busta paga alle donne incinte: "Sono malate"

 

Le Poste Italiane hanno ricevuto pochi anni fa il “Bollino Rosa S.O.N.O. – Stesse Opportunità Nuove Opportunità”, promosso dal ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale. Ebbene, pochi giorni fa, l’azienda, insieme a un manipolo di sindacati complici, (UilPoste, Failp-Cisal, ConfsalCom e UglCom: quattro organizzazioni sindacali che, insieme, rappresentano il 22% delle lavoratrici e dei lavoratori dell’azienda), ha sottoscritto un accordo separato che toglie 140 euro di Bonus alle future mamme. Ciò è stato possibile attraverso un passaggio "formale" che forse nemmeno i nazisti avrebbero osato: l’astensione obbligatoria per maternità viene equiparata all’assenza per malattia. Orribile? Forse qualcosa di più. Questa è l'Italia dell'austerità.

 

Cgil e Cisl hanno subito scritto al ministro Fornero (che non si capisce perché dopo aver umiliato gli esodati dovrebbe a questo punto prendere la parte delle donne di Poste italiane). Ma sentite quali argomenti sollevano.

 

“Noi ricordiamo che il Progetto “Bollino Rosa S.O.N.O. – scrivono Cgil e Cisl - aveva la finalità di comprendere il complesso fenomeno dei differenziali retributivi che colpiscono le lavoratrici in ampi segmenti del mercato del lavoro e “certificava” le buone prassi in termini di strategie e pratiche aziendali tendenti alla valorizzazione della presenza e delle competenze femminili”.

 

La circostanza singolare è che sindacati “dissidenti” non chiedono a Fornero di annullare l’infame accordo ma “di revocare l’immeritato riconoscimento e di voler considerare la gravità dell’atto compiuto in termini di ‘cattivo esempio’ per quelle aziende che, pur non essendo paragonabili per storia, dimensioni e risorse a Poste Italiane, contribuiscono ogni giorno ad una reale valorizzazione delle politiche di Pari Opportunità”.

 

La lettera è firmata da Barbara Apuzzo (Coordinamento nazionale Donne Slc Cgil) e da Caterina Gaggio (Coordinamento nazionale Donne Sip Cisl).

Fabrizio Salvatori

14/06/2012 www.controlacirsi.org

 
 
 
 

L'informazione dipendente, dai fatti

Nel Paese della bugia la verità è una malattia

(Gianni Rodari)

 

SI IUS SOLI

 

 

www.controlacrisi.org

notizie, conflitti, lotte......in tempo reale

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www.osservatoriorepressione.info

 

 

G8 GENOVA 2011/ UN LIBRO ILLUSTRATO, MAURO BIANI

Diaz. La vignetta è nel mio libro “Chi semina racconta, sussidiario di resistenza sociale“.

Più di 240 pagine e 250 vignette e illustrazioni/storie per raccontare (dal 2005 al 2012) com’è che siamo finiti così.

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Giorgiana Masi

Roma, 12 maggio 1977

omicidio di Stato

DARE CORPO ALLE ICONE

 
 
 
 

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