Pensa, non credere.

RICETTA PER UN FEMMINICIDIO


Ingredienti per 18 persone (uccise da inizio anno):INDIFFERENZA qualche milione di personeCONDANNA LATENTE DELLA LIBERTA' FEMMINILE q.b.IGNORANZA meno di quanto si pensaNEGLIGENZA da non dimenticareGIUDIZIO MORALE in abbondanzaFINALE CRUENTO ingrediente baseABBANDONO necessario INVERSIONE VITTIMA - CARNEFICE consigliataRAPTUS il finto ingrediente segretoNell'epoca in cui le inchieste lunghe e complesse sono sostituite dai TG 60 secondi; nell'epoca in cui tutti leggono i titoli, ma nessuno l'articolo; nell'epoca in cui è l'Iphone a scegliere gli articoli più importanti per noi; nell'epoca in cui le fonti sono valide perché prese da un post di facebook; un femminicidio viene narrato solo nella sua parte finale, quella cruenta, quella che fa audience, quella da pettegolezzo. Il resto a chi interessa? Noioso, lungo, difficile da leggere, poco televisivo. Chi d'altronde avrebbe interesse a capire le dinamiche che conducono ad un esito quasi sempre prevedibile e scontato? Meglio raccontare l'evento cruento e spettacolare finale, che crea molto più appeal e fa "notizia". E poi che giallo sarebbe un femminicidio “lento”, quello in cui la vittima denuncia e viene ignorata per anni, quello in cui il colpevole da tutti, ma proprio tutti, gli indizi per far capire che è gravemente malato e prima o poi ucciderà? Meglio ignorare tutto e cadere dalle nuvole (giornalisti, vicini, autorità, preti e commentatori televisivi). Creato il contesto, quindi, iniziamo con il nostro primo ingrediente: il raptus. Non può mancare in un femminicidio che si rispetti. Anche in quelli in cui è proprio assurdo metterlo, magari quello di Cisterna di Latina, in cui il malato mentale omicida prepara lettere, testamenti, destina somme all'amante, organizza l'agguato e tiene in scacco le forze dell'ordine per ore. Fredda lucidità razionale e calcolatrice. Iniziate a preparare il piatto dicendo sempre che è stato un raptus. A chi piacerebbe una storia di banale malattia mentale, che negli anni si aggrava e agisce indisturbata nell'indifferenza della comunità? No, no, meglio dire sempre: “inspiegabile”, “incomprensibile”, “improvviso”. Siamo così giunti al primo stadio della ricetta che chiameremo IGNORANZA. L'avremo, difatti, ben foraggiata, con termini che confondono e non stimolano alcuna ricerca sulle cause, facendo invece pornografia con dettagli splatter dell'omicidio, che nulla smuovono nel pensiero di chi ascolta. Per fare un parallelo, potremmo paragonare il circo mediatico che si forma nel luogo del delitto ed assetato di particolari scabrosi ad una fiction come “Gomorra”. Nulla si intuisce sulla tragedia interna di quei boss tanto idealizzati, anzi viene tutto banalizzato, senza mai narrare il dramma di essere diventati così violenti (malati) e di condurre una vita nel costante terrore di esser presi dallo Stato o dal nemico (magari rinchiusi in un bunker d’oro, ma che sempre bunker rimane). Il boss viene dipinto forte e di successo, al limite dalla parte sbagliata (forse), ma sano come tutti gli altri. Nella serie, il protagonista uccide la moglie, madre di sua figlia, dopo una cena assieme, senza problemi, come scelta razionale. Poi sì sta male, sente dolore, ma non viene mai descritto come malato, disturbato o semplicemente con qualche problema. Cattivo, ma non malato. Come nella fiction, allora Voi raccogliete i dettagli dell’arma, della modalità dell’assalto, ma mai fate capire come sia gravemente disturbata quella persona, altrimenti rischierete che qualcuno pensi addirittura di curare questi soggetti patologici e perderemmo lo “chef” della nostra ricetta. Diffidate, diffidate sempre, dalle ricette che parlano di malattia mentale. Non inseritela mai nella vostra preparazione! Negate, negate fino alla morte che ci sia malattia mentale nella ricetta. Passiamo ad un altro ingrediente che non può mancare: l'indifferenza. Nessun buon femminicidio riesce senza indifferenza. La brava massaia non dovrà mai dire che i segni di malattia del perfetto femminicida erano evidenti a tutti coloro che lo conoscevano. "Era una bravissima persona", si magari un pò manesco, ma chi non ha mai avuto "uno scatto d'ira"? Descrivete quanto accaduto sempre anteponendo le parole: “nell’impeto” o “nella foga”. L'indifferenza è la prima coltellata, il primo colpo di pistola per la vittima che, quando racconta il fatto alle persone vicine, si vede sminuita la tesi. Perché una cultura millenaria di sottomissione della donna non la cancelli con quattro diritti conquistati a lacrime e sangue e attaccati facilmente da quattro parlamentari stipendiati dal Vaticano. Non dimenticate, per non far capire l'ingrediente, di fingere di interessarsi al caso. Suggerite di scappare alla vittima, lasciando tutto, lavoro, amici, relazioni sociali e possibilità economiche. Vedrete che sarà più restia di prima a ribellarsi. Se non desiste, proponete l'alloggio in un centro antiviolenza (a vita, s'intende!) come soluzione infallibile. Non fatevi scrupolo a chiamare qualsiasi centro per conto della vittima, farete bella figura e vedrete che nessuno si interesserà del caso, perché "deve essere la vittima a rivolgersi direttamente". Se ancora non basta, ditegli che in fondo i soldi non fanno la felicità e potrà certamente rifarsi una vita, sola, dall'altra parte dell'Italia, senza soldi e senza lavoro (e con minori a carico, magari). A questo punto l'indifferenza sarà ben cotta e si potrà procedere. In tutti i procedimenti ricordate sempre di bilanciare le colpe tra vittima e carnefice, mettendo sullo stesso piano, ad esempio, un difetto ed uno schiaffo, una colpa ed una violenza: “si, ti ha picchiato, ma anche tu a volte sei insopportabile!”. Ricordate: sullo stesso piano.Se la vittima sacrificale avrà addirittura l'arroganza di rivolgersi alle forze dell'ordine, beh allora si rischia di bruciare il piatto! Condite subito il tutto con i due ingredienti "stabilizzatori": una gran dose di negligenza e abbondante giudizio morale. Negligenza. Fate una legge sullo stalking, di facciata, senza alcun effetto pratico, mandate in TV rappresentanti delle forze dell'ordine a pubblicizzare la loro "attenzione" costante e crescente al caso (che non trova riscontro nella diminuzione del reato) ed enunciate termini a caso che facciano intuire basilari studi psicologici anche tra i rappresentanti delle autorità. Vi troverete quindi con la vittima (che si ostina a volersi salvare) che vorrebbe denunciare, ma spesso gli si consiglia di non farlo, magari per il "bene dei figli" (o, meglio detto, per il bene dell'immagine ipocrita di famiglia santa e unita che piace tanto). Se denuncia e si ostina a non voler morire dignitosamente, saranno le formidabili e tempestive indagini a salvare la ricetta. Dopo tre giorni, infatti, la denuncia sarà notificata allo stalker, che verrà anche interrogato in merito, e vedrete che sicuramente la prenderà benissimo, equilibrato com’è e ci penserà lui a finire il lavoro ed impiattare. Ma potrebbe pur capitare che lo stalker non sia abbastanza virile o malato e quindi dovrete aumentare la sua onnipotenza tramite incontri a due presso il commissariato di turno nel tentativo vano e deleterio di "trovare una mediazione", il cui risultato sarà solo far capire alla prossima vittima che denunciare non serve a nulla se non a esacerbare la malattia del violento (tramite l'aumento della sua onnipotenza, quando si vede impunibile). Ora prendete gli scarti di lavorazione e archiviate tutto, la querela, la denuncia o quel che ostacoli il buon proseguimento del femminicidio. In fondo, può la vittima dimostrare di essere stata oggetto di violenza? Dove sono i testimoni? Si è recata in ospedale a farsi medicare la ferita dello schiaffo o del calcio ed è rimasta ricoverata almeno due giorni? Può mostrare inequivocabili ferite di schiaffi o strattoni a terra? Ma anche se lo squilibrato fosse tanto fesso da lasciar segni, qualcuno può giurare di averlo visto durante la violenza? Qualcuno testimonierà l'avvenuto? D'altronde la maggior parte delle violenze avviene in pubblica piazza, davanti a testimoni e telecamere, o no? Sono tutte fandonie e si potrebbe anche presupporre una diffamazione! Ma non anticipiamo l'ingrediente finale, l'inversione delle responsabilità. A questo punto il piatto è quasi pronto, il collante si sa è la condanna latente della libertà femminile, ingrediente base. Perché in fondo, a questa povera disgraziata, l'ha costretta qualcuno a lasciare il suo uomo? Era obbligata? Ha voluto la libertà? Ed ora se ne prenda le responsabilità! In fondo lui sarebbe stato disponibile a continuare la relazione, anche se contornata da tradimenti più o meno reciproci, liti furibonde e problemi sui minori. Una donna deve sopportare, se oggi le relazioni non funzionano più è proprio perché non si subisce in silenzio e si sogna per se e per i propri figli un futuro migliore, una relazione sana. Se la prostituzione esiste da 3000 anni chi è la signorina per opporsi al legittimo proprietario, scusate, al legittimo marito che ogni tanto si "sfoga"? Si fa un mazzo tanto a lavoro, avrà il diritto di spendere i suoi soldi come meglio crede? Quello non è tradimento. La famiglia è il bene supremo, non l'individuo, venga meno l'egoismo personale. Vi stupirete di come sarà facile ottenere consenso in una cultura retriva e misogina come la nostra! Senza troppi sforzi avrete ottenuto il giudizio morale, che peserà sulla vittima come un macigno, facendola sentire in colpa e complicando ancor di più la sua scelta. Come spiegare in altra maniera le centinaia di querele che poi finiscono nel dimenticatoio (quando non in un omicidio)? Tutte isteriche che denunciano fandonie e poi rinsaviscono? Tutti mariti che ricevuta la denuncia guariscono? E come spiegare che la quasi totalità delle donne uccise aveva già denunciato più e più volte e poi lasciato perdere o ritrattato?La ricetta è quasi pronta, avete finalmente ottenuto un buon composto: l'inversione della vittima con il carnefice. Siamo alla fine, allo sfregio finale. Chi ha abbandonato? Che effetti avrà sui minori la rottura del sacro vincolo coniugale? Chi amava di più dei due? E dunque di chi è la colpa? Farcite bene l'inversione delle responsabilità con l'abbandono, non dimenticatelo. L'abbandono che soffre lo stalker, vi permetterà di far diventare il carnefice vittima e quando giungerete a fine pasto (all'omicidio per intenderci), tutti un po’ sodalizzeremo con l'abbandonato, perché soffriva, perché in fondo "amava troppo". I termini, mi raccomando i termini, sono importantissimi. Ripetete all’infinito: “non ha accettato la fine della relazione”. Come se ci fosse una proposta da accettare quando un partner ti dice che la storia è finita: “Accetti la fine della vostra storia?” - "Ci penso, in caso ti ammazzo". Date il giusto peso ai termini perché poi, se esiste la possibilità di accettare o meno la scelta della donna, di conseguenza viene la possibilità di decidere se quella scelta è giusta o sbagliata, accettabile o sanzionabile. Togliete dal fuoco, guarnite, impiattate e servite a tavola. E poi aspettate. Aspettate qualche settimana, qualche mese. Anzi aspettate 60 ore e un altro femminicidio sarà consumato (una ogni sessanta ore da inizio anno). Il piatto forte di una società in cui calano gli omicidi ed aumentano i femminicidi. In cui i malati mentali sono gestiti in commissariato anziché in ambulatorio. In cui le vittime devono giustificarsi e i colpevoli sono giustificati. L’unico giallo in cui il detective comunica subito a tutti i protagonisti chi sarà l’omicida e chi la vittima e tutti assieme attenderanno noiosamente l’epilogo di una storia nota per poi precipitarsi, allarmarsi e riempirsi voracemente di dettagli un minuto dopo l’inevitabile, evitabile. Il buon senso e la semplicità ci possono aiutare. Un soggetto che chiama il partner centinaia di volte al giorno, magari senza alcuna risposta, è una persona malata. Una persona che pedina costantemente il partner, che picchia o violenta è sempre malata. Se una persona "non accetta" la fine della relazione e fantastica "provvedimenti" forse è il caso che si rivolga ad uno specialista e non alle "autorità". O, al limite, che le autorità lo conducano da uno specialista, piuttosto che in un commissariato. Perchè le storie di questi malati mentali sono tutte uguali e benchè essi si sentano incompresi, unici, incredibilmente disgraziati, alla fine fanno tutti le stesse paranoiche mosse che la nostra società ignora annoiata, restando in attesa dell'evento pulp che riempirà il pomeriggio di qualche vecchino sintonizzato sul rotocalco televisivo ingordo di notizie shock.