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...fini la comédie

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Messaggi del 07/03/2012

Il dono più grande

Post n°247 pubblicato il 07 Marzo 2012 da ofelia770

 

 

 Buonasera a tutti i carissimi amici che con tanto affetto e tanta comprensione hanno compreso il momento difficile che sto attraversando.
Grazie a tutti coloro i quali vorranno venire a leggere questo mio nuovo racconto. Questa sera vi porto indietro nel tempo….e vi parlerò di un popolo antico, che amava e rispettava la natura, gli animali e gli esseri più deboli.
Questo popolo è stato sterminato dalla cosidetta civiltà, perché credeva nell’amicizia e nella lealtà.
Ma il suo spirito ancora aleggia fra i sospiri del vento, fra le fronde degli alberi, nel canto degli uccelli, nell’erba delle sterminate praterie…Indiani d’America.
Buona lettura e un abbraccio grande e riconoscente.
Daniela

 

Verso la fine del XVIII secolo, l’America, allora conosciuta come il “Nuovo Continente o il Nuovo Mondo” era ancora in gran parte un territorio selvaggio e inesplorato. In particolare il nord est americano e il sud del Canada fino alle cascate del Niagara erano popolate per lo più dagli Indiani e da qualche coraggiosa colonia di inglesi e francesi che si disputavano il territorio.
Quelle sterminate praterie, quelle immense foreste, quei fiumi impetuosi e la miriade di laghi durante l’inverno venivano ricoperte dai ghiacci e la vita per tutti diveniva una lotta alla sopravvivenza.
L’inverno aveva steso il suo manto ghiacciato su quell’immenso territorio. Tutto era stato sepolto sotto la coltre bianca.
La donna si guardò attorno mentre un senso di oppressione le stringeva il cuore.
Era sola. Sola con tre bambini. Tre bambini da proteggere, da sfamare, da difendere. Era sola, lei e l’immensità del mondo bianco.
Quando un mese prima il fortino dove vivevano era stato distrutto da un incendio, gli uomini erano partiti alla ricerca di aiuto.
Ma in quella stagione, in quei luoghi popolati solo da pochi coraggiosi e da qualche missione, dove nemmeno gli indiani osavano rimanere in inverno, era un’impresa disperata.
Le avevano lasciato un po’ di viveri che erano riusciti a salvare dall’incendio, legna da ardere, coperte e pellicce per difendersi dal gelo ed erano partiti.
Lei e i bambini si erano rifugiati all’interno della vecchia miniera di carbone abbandonata ed avevano atteso fiduciosi il ritorno degli uomini.
Ma ormai era trascorso un mese e Lara non aveva quasi più nulla da dare da mangiare ai tre piccoli che vedeva deperire ogni giorno di più.
Quella mattina, il sole era sorto dietro alle montagne e lei era uscita all’aperto. Il suo sguardo si perse nell’immensità del nulla. Sulle ciglia si formarono cristalli di ghiaccio ed ogni respiro era doloroso. Come ingoiare ghiaccio. La foresta innanzi a lei sembrava pietrificata. Avanzò comunque a fatica verso gli alberi nella speranza di trovare quei licheni selvatici che, sfidando la neve e il ghiaccio, spuntavano fra le cortecce.
Il silenzio era rotto solo dal tonfo prodotto dalla neve che cadeva dagli alberi.
Ad un tratto però, il suo udito finissimo, fu attratto da un rumore diverso. Le sembrò di sentire dei gemiti, delle esclamazioni di dolore provenire dalla foresta.
Si calcò bene il cappuccio sugli occhi e avanzò con cautela sulla distesa di ghiaccio. Man mano che avanzava udiva sempre più distintamente il rumore soffocato di un uomo che soffriva. La sua mano corse alla cintura. Il fucile era lì. Bastò questo a darle coraggio e a farla andare avanti. Esseri umani! C’erano altri esseri umani in quell’inferno bianco. Forse gli uomini che tornavano ad aiutarla?
Doveva assolutamente andare a vedere. Ma camminare nella neve fresca era faticoso. A volte sprofondava fino alle ginocchia. Con fatica si rialzava e continuava il suo cammino.
Dietro alcune rocce si fermò. L’ombra la riparava da sguardi indiscreti. Lara non poteva esporsi senza sapere a chi o a cosa stava andando incontro. Doveva sempre ricordarsi che laggiù, sepolti nella miniera sotto la neve, c’erano tre bambini che dipendevano in tutto da lei. Dalla sua capacità di rimanere viva.
La nebbiolina sottile, mista a pulviscolo di neve si alzò all’improvviso e la scena si presentò chiara innanzi ai suoi occhi.
C’era un uomo disteso nella neve, il sangue che sgorgava da una ferita alla testa disegnava striature rossastre sul bianco accecante. Era un indiano. Magro da far paura, seminudo ad eccezione di una pelliccia d’orso che doveva essergli stata strappata di dosso e poi lasciata accanto ma non sufficiente a coprirlo e a difenderlo dal freddo. Man mano che si avvicinava, Lara notava altre ferite sul corpo dell’uomo. Era stato torturato. Numerose bruciature gli costellavano il torace magro. Gli erano state strappate le unghie della mano destra e dei piedi.
Lara ebbe un moto di pietà. L’uomo la osservava con uno sguardo insondabile. Sebbene dalle sue labbra sfuggissero gemiti di dolore, il suo volto non mostrava né paura né sofferenza.
Guardò la donna avanzare e un sorriso distese le sue labbra sottili.
“Kawa! La Signora della foresta!” mormorò.
Lara si fermò interdetta. Sapeva che gli indiani le avevano dato quel soprannome per le sue doti di guaritrice, ma si meravigliava di udire l’indiano parlare nella sua lingua.
“Mi conosci fratello?” Gli chiese avvicinandosi.
“Chi non conosce la donna che guarisce i malati e gli infermi? La tua fama ha oltrepassato le montagne. I tuoi capelli di luna e i tuoi occhi d’acqua chiara sono noti anche al popolo della “Lunga Casa”.
Lara capì che si riferiva agli Irochesi, i più potenti fra le varie tribù indiane.
“Sono stati loro a farti questo?” chiese.
L’uomo assentì con un cenno del capo. “Cercavo cibo per la mia famiglia quando loro sono comparsi all’improvviso. Mi hanno circondato e legato al palo della tortura. Quei cani rognosi non rispettano nulla e non temono nessuno. Compaiono dal nulla”.
“Ma ti hanno lasciato la vita!” Lara non si capacitava. Non l’avevano nemmeno scotennato. Eppure si conosceva la ferocia del popolo delle Cinque Nazioni quando si trovavano di fronte ai loro nemici storici: gli Algonchini.
“Non ne hanno avuto il tempo. E’ in arrivo una tempesta e loro dovevano tornare ai loro accampamenti. Si sono divertiti un poco con me e poi mi hanno lasciato qui. Sicuri che la natura avrebbe pensato a completare la loro opera”.
“Non posso lasciarti qui. Ti porterò con me al riparo. Lì curerò le tue ferite”.
Lara non pensò nemmeno per un attimo che si sarebbe trovata un’altra bocca da sfamare. Era un uomo. E aveva bisogno di aiuto.
L’indiano sogghignò. “E come pensi di trasportarmi fino al tuo rifugio, Kawa?”
Lei gli indicò la pelliccia d’orso accanto al corpo mutilato.
“Ti trascinerò con quella. Come ti chiami grande guerriero?”
L’appellativo parve piacere all’uomo che chinò leggermente la testa.
“Io sono Aquila Grigia, capo della tribù degli Algonchini del nord. Per questo conosco la tua lingua. Sono anche stato battezzato”, aggiunse con orgoglio. “E non verrò a mani vuote da te!”

 

 

Lara al momento non capì, ma quando si chinò per stendere la pelliccia d’orso per farne una barella, scorse il corpicino senza vita di una lepre delle nevi che l’indiano doveva avere preso da una delle tante trappole che disseminavano intorno ai loro accampamenti.
Della carne! Carne per fare un buon brodo da dare ai suoi piccoli! Carne da mangiare! E le sorprese non finirono lì. Da un sacchetto cucito all’interno della pelliccia c’era un pugno di mais e uno di fagioli.
Li strinse al cuore come un tesoro prezioso.
Poi, facendo appello a tutte le sue forze, fece scivolare la pelle dell’orso sotto il corpo dell’indiano. L’uomo doveva soffrire le pene dell’inferno. Ma non si lamentava più. Gravata di quel peso lei si accinse al ritorno. Doveva affrettarsi. Il sole era scomparso e dense nuvole viola coprivano ora la cima delle montagne. La tempesta stava arrivando.
Infine arrivò all’ingresso della miniera, proprio mentre il vento gelido cominciava a sferzarla, colpendola con raffiche di neve gelata.
Esausta si lasciò cadere per terra, trascinando con sé la pelle d’orso con il corpo dell’indiano. Un ultimo sforzo e rinchiuse la porta sulla tempesta che andava scatenandosi in tutta la sua violenza.
I bambini le corsero incontro e curiosi guardarono quel grande corpo disteso davanti al focolare.
Il loro sguardo non mostrava timore o impressione. Erano bambini del Nuovo Mondo, cresciuti nella natura selvaggia. Le ferite non li spaventavano e conoscevano gli indiani.
Lara scrutò i loro visetti smunti e sebbene distrutta dalla fatica ebbe la forza di sorridere.
“Bambini! Venite a conoscere Aquila Grigia. Lui è un grande guerriero. E noi dobbiamo curarlo. Capito?”
“Si madre!” Risposero i piccoli.
Lei se li strinse al cuore. Poi, con rinnovata energia si diede da fare per alimentare il fuoco. Come prima cosa bisognava pensare a sfamarli. Poi si sarebbe dedicata a curare le ferite del suo nuovo amico. Ora lui era al caldo, al sicuro. E le ferite non erano mortali.
Mentre una marmitta sobbolliva sul fuoco e un delizioso profumo di cibo si sovrapponeva a quello del fumo denso proveniente dal camino, Lara andò a prendere la sua cassetta di erbe medicinali, la filaccia, le bende e l’acquavite con cui intendeva pulire le ferite dell’indiano.
L’uomo non batté ciglio quando l’alcol bagnò la carne viva. Lara pulì bene tutte le ferite. Spalmò un unguento sulle bruciature, ma quella che la preoccupava di più era la ferita alla testa. Era stata inferta con un tomohawk ed era piuttosto profonda.
Avrebbe potuto cucirla, ma se il sangue non si fosse stagnato, l’emorragia avrebbe creato una compressione al cervello più pericolosa che lasciarla aperta.
Si limitò a tamponare bene, a lavare la ferita con abbondante acquavite e a fare una fasciatura stretta.
Aiutò l’indiano a bere un poco d’acqua e finalmente si dedicò a nutrire i suoi piccoli. Il brodo di carne fece apparire un po’ di colore sulle guance smunte dei bambini, ne fece bere un poco anche all’uomo sempre disteso nella sua pelliccia d’orso e quando tutti furono sazi, prese una scodella con il brodo rimasto e sedette sulla pietra del focolare. A piccoli sorsi godette di quel tepore, di quel sapore. Era la vita che tornava.
La tempesta si scatenò con un’intensità terribile. Per giorni e giorni infuriò. Lara non distingueva più il giorno dalla notte. Stretti nel grande letto, coperti dalle pellicce, i bambini dormivano tantissimo.
Lei ne era contenta. Il cibo scarseggiava di nuovo. Si torceva le mani non sapendo come fare a procurarsene.
Aquila Grigia migliorava. Le sue ferite si andavano rimarginando. Non mangiava e dava la sua razione ai bambini. Ma la situazione era insostenibile.
Lara era disperata. Una notte, sentì una mano che la scuoteva. “Svegliati Kawa! Svegliati! Fuori ci sono degli animali. Carne! Cibo!”
Lei non si chiese come faceva a saperlo. Gli indiani hanno di queste premonizioni. Loro sanno interpretare i segni.
Si alzò dal letto. Era sfinita dalla fame e dall’inattività.
“E come faccio ad uscire? La tempesta…”
“La tempesta è finita. Il vento non ulula più nel camino. Sbrigati! Prendi il tuo fucile!”
“I bambini” pensò lei. “Devo farlo per i bambini”.
Si coprì con il mantello di pelliccia, prese il fucile ed uscì all’aperto.
La notte era ancora più glaciale di quanto avesse temuto, ma magicamente illuminata da una luna piena, simile a una conchiglia di madreperla. Tante piccole stelle punteggiavano il cielo di pallide faville, attenuando il blu vellutato della notte. Sotto la volta del cielo tutto era bianco e nero. Bianca la distesa gelata, nere le foreste sul limitare delle quali impalpabili strascichi di bruma parevano imprigionare in fugaci barlumi gli sfavillii del chiarore lunare.
Lei si guardò intorno, avida di cogliere, in quel silenzio pietrificato, l’eco di un passo, di un movimento di un’ombra. Nulla si muoveva. Gli occhi le facevano male. Aveva portato una torcia per illuminare il cammino e la fiamma gialla accendeva di bagliori le stalattiti di ghiaccio che pendevano dagli alberi.
Non voleva rinunciare. Non poteva. Fece il giro di un crinale e improvvisamente li vide.
Un branco di lupi che si accanivano contro un alce ferita a morte e al suo piccolo.
“No!” Pensò con disperazione. “Tutta quella carne. E’ mia, amici miei. Non posso lasciarvela!” Sparò un colpo in aria e i lupi si allontanarono impauriti. Ma poi, attratti dal cibo e dal bramito dell’animale ferito a morte ritornarono. Lei li vide arrivare. Un’onda grigia, punteggiata dalla luce di mille occhi. Il terrore la paralizzò per un istante. Poi imbracciò il fucile e sparò all’animale morente. L’alce, colpito al cuore si accasciò al suolo. Allora, incurante del pericolo, brandendo la torcia per tenere a distanza il branco affamato si avvicinò coraggiosamente. I lupi le giravano attorno. Temevano il fuoco. Ma alla luce della torcia lei li vide magri, affamati.
In ginocchio, per afferrare l’alce per le zampe e trascinarla si trovò a pochi passi dalla testa del capo branco. Gli occhi del lupo erano alla stessa altezza dei suoi. Erano occhi brillanti, dolci quasi più di quelli di un cane, quasi umani e come supplichevoli, avidi e tristi. E vide come erano scheletrici e come lei sottoposti a quella prova infernale che minacciava la loro esistenza: la FAME.
Non davano segno di ferocia. Era lei la più feroce, lei che non voleva lasciare nulla del suo bottino.
“Lascio il piccolo” pensò. “Devo farlo!”
Indietreggiò in ginocchio, trascinando l’alce con se e brandendo la torcia per tenerli a distanza.
“Vi lascio il piccolo. Vi lascio il piccolo perché avete fame e perché siamo fratelli…fratelli!”
“Fame, …fame,… fame… .Fratelli, …fratelli,… fratelli…” ripetevano gli echi interminabili del paese di cristallo.


Quando si allontanò trascinando la sua preda vide che i lupi, increduli di fronte a tanta fortuna si buttavano sul magro pasto.
Quando raggiunse il suo rifugio con la sua preda ambita, con ciò che rappresentava, carne fino a primavera, vita per i suoi bambini, cadde per terra e pianse.
Una mano leggera le si posò sul capo. Aquila Grigia si era alzato dal suo giaciglio e guardava con approvazione il grande corpo dell’animale abbattuto.
“Sei stata brava Kawa! Non piangere più. Penserò io a scuoiare la bestia, a tagliare la carne, ad estrarre gli umori cattivi. Tu riposati adesso”.
Le giornate trascorsero lente. L’inverno sembrava non avere mai fine. Lara quando il tempo lo consentiva, lasciava che i bambini uscissero per qualche minuto per respirare un po’ d’aria pulita.
E fu in una di quelle mattinate che Eloisa, la più piccola dei suoi bambini le recò un fiorellino. Lo portò nelle sue manine grassocce e lo offrì alla madre.
Lara si complimentò con la sua bambina. Insieme misero il fiore in un vasetto con l’acqua.
Lo stesso giorno Aquila Grigia si presentò davanti a lei.
Aveva oliato per bene le sue trecce d’onore, che cadevano ai lati del viso. Indossato la sua pelliccia d’orso era pronto per partire.
Lara cercò invano di trattenerlo.
“Sei ancora debole. L’inverno non è finito…”
Ma l’indiano fu irremovibile. Nei giorni passati, le spiegò, aveva osservato il cielo in attesa di un segno.
Quella mattina una grande aquila aveva sorvolato le montagne. Il segno era giunto. Lui doveva tornare dalla sua famiglia, dalla sua tribù.
“L’inverno sta per finire. E tu sei forte Kawa. Ce la farai. Presto i ghiacci si scioglieranno e gli uomini torneranno”:
Poi, accompagnato fino alla porta dai bambini, varcò la soglia di quello che era stato il suo rifugio e si avviò verso la foresta.
Senza quella presenza silenziosa, ma comunque amica, Lara si sentì di nuovo sola. Ogni giorno scrutava l’orizzonte sperando di sentire in lontananza l’eco di slitte che portavano gli uomini, che portavano la salvezza.
Incominciò il disgelo. Nella notte si sentivano rombi paurosi. Erano i lastroni di ghiaccio che si schiantavano al suolo. Camminare sul ghiaccio era diventato pericoloso. Il lago vicino alla miniera, in alcuni punti già mostrava un riflesso azzurro cupo e verdastro sotto la crosta di ghiaccio sempre più sottile.
La foresta si popolava di nuovi richiami. Gli uccelli facevano ritorno. Il sole durante il giorno riscaldava e i bambini ne approfittavano per passare più tempo a giocare all’aperto.
Lara li vedeva rifiorire e un giorno decise di andare nel sottobosco a fare rifornimento di germogli di aghi di pino che le occorrevano per preparare uno sciroppo per la tosse che affliggeva Cristiano, il maggiore dei suoi figli.
Fece mille raccomandazioni ai bambini, di non allontanarsi, di non andare vicino al lago.
Il sole splendeva e lei si sentiva libera e leggera. La primavera stava arrivando e con la primavera sicuramente sarebbero arrivati anche gli uomini. Avrebbero potuto tornare a casa, al loro possedimento sulla costa sud dell’Acadia.
La sua raccolta fu proficua. Aveva trovato anche delle verzure selvatiche, avrebbero mangiato una vera insalata. Tornando verso la miniera udì un bramito possente. Il sangue le si gelò nelle vene. Quale altro pericolo minacciava la sua famiglia?
Lasciò cadere il cesto con le provviste e corse più velocemente possibile.
Quando arrivò in prossimità delle rovine del fortino bruciato una scena terribile si parò innanzi ai suoi occhi.
I suoi tre piccoli immobili e terrorizzati si tenevano stretti. Davanti a loro un orso, smagrito ma possente ed enorme si ergeva in tutta la sua altezza.
Doveva essere appena uscito dal letargo invernale. Aveva fame. Lara sapeva come questi aninmali possono essere pericolosi. E lei non aveva nemmeno il suo fucile. Si maledisse per non avere pensato a portare un’arma con sè.
Poteva solo sperare che i suoi bambini rimanessero immobili, che non scappassero. Questo avrebbe risvegliato l’istinto di cacciatore dell’orso.
Ritrovato il sangue freddo, gridò forte. Voleva distogliere l’attenzione della bestia dai bambini per fargliela rivolgere verso di lei.
“Non muovetevi!” gridò ai suoi piccoli. “Non parlate, non respirate!”
L’orso si voltò verso quel grido , rispose con un bramito e si battè il petto possente. Poi, tornò a rivolgere la sua attenzione ai tre bambini.
Lara si buttò in avanti con tutta la disperazione di una madre. Non aveva lottato invano tutto quell’inverno, per farseli poi portare via da un animale!
Mentre correva incontro all’orso, sbracciandosi, gridando, improvvisamente vide l’orso ricadere sulle quattro zampe. Il suo muso bruno aveva un’espressione stupefatta. Dal fianco dell’animale spuntava una freccia.
Ma questo lo rese ancora più pericoloso. Abbassò la testa e caricò. Lara urlò e si coprì il volto con le mani. Ma un altro grido terribile eccheggiò nell’aria e le montagne ripeterono quell’eco all’infinito. Un altro orso si scagliava contro il primo. Lara stupefatta si rese conto che era solo una pelliccia e che chi combatteva corpo a corpo con l’orso era il loro amico, Aquila Grigia.
“Presto bambini, correte! Andate in casa subito!” Gridò ai tre piccoli che non se lo fecero ripetere. Corse anche lei. Cercava di raggiungere il suo fucile. La lotta era impari. Aquila Grigia stava per essere sopraffatto dai terribili artigli dell’orso. Già la neve si tingeva di rosso del sangue che sgorgava da numerose ferite. Ma l’indiano continuava a combattere.
Quando arrivò alla miniera era senza fiato. Ma non si fermò, afferrò il suo fucile e corse fuori.
L’orso non c’era più. Ma per terra, dilaniato dai suoi artigli feroci e dai denti aguzzi c’era il corpo del suo amico. Dell’uomo che aveva salvato la vita ai suoi bambini.
Corse da lui. A prima vista si rese conto che non c’era più nulla da fare. L’indiano stava morendo.
Gli sollevò la testa e lo cullò fra le braccia.
“Fratello mio…fratello mio” mormorava fra le lacrime.
 Solo gli occhi di Aquila Grigia parlavano in quel volto reso irriconoscibile dalle tremende ferite. “Ho vinto Kawa e ho saldato il mio debito con te….i…bambini…sono salvi…”
“Grazie! Grazie! Che Dio ti benedica amico mio!”
Ma l’uomo non rispose più. I suoi occhi ciechi ormai erano rivolti verso quel cielo azzurro dove era andato, nei verdi pascoli dell’eternità.
Lara, piangeva e nella sua mente confusa udiva voci, richiami….”sto sognando”, pensò.
Poi li vide. Arrivavano. Gli uomini erano tornati!
Il lungo inverno era finito.

 
 
 

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