LE PAROLE

Post N° 258


Asfalto di notte.             (1 di 2)Nell’ora che pur essendo notte si avvicina di più al giorno l’asfalto è diverso. Più duro, più compatto, più scuro. Diventa quasi nero e l’ombra si nasconde nell’ombra. I passi risuonano occupando tutto lo spazio e non incidono il silenzio che resta immobile, appoggiato pesante sulle spalle. Non erano questi i pensieri a livello conscio, ma ne percepiva lo sfilacciato rimbombo sul margine estremo della percezione. Pensava altro, mentre camminava lenta nella strada illuminata da pochi lampioni dalla luce fioca. In quella strada di estrema periferia, la città con le sue voci era lontana, inesistente. Camminava lenta, un passo pesante dopo l’altro. Stanca. Troppo tardi per prendere l’ultimo autobus. Stanca. Quel lavoro che finiva troppo tardi di notte e iniziava troppo tardi nel pomeriggio la svuotava. Avrebbe voluto come gli altri uscire presto al mattino e tornare presto al pomeriggio. Avere la sera e la cena e la televisione, amici, il suo ragazzo. Avere la notte e il sonno. Troppi mesi che il suo corpo dormiva di giorno e lavorava di notte. Quel lento ritorno a casa, con quei lenti passi pesanti, con il freddo dell’inverno o con il caldo dell’estate, erano ormai un automatismo, un’abitudine che non occupava la sua preoccupazione. In quel tempo che la separava da casa i pensieri erano solo un torbido fluttuare.Oggi era diverso. Le parole si rincorrevano nella sua mente e avevano una simmetria strana. Era abituata a tutto dietro al banco del bar. Clienti estrosi, vagabondi, attabrighe, proposte oscene, vecchi, giovani, donne, uomini, ragazzini foruncolosi, la varia specie del genere umano era passata tutta dal suo bar. Per ognuno aveva una risposta e un atteggiamento. Oggi era diverso. Era successo poco dopo la mezzanotte. C’erano i soliti che giocavano a belote al tavolo in fondo, una coppia che parlava sottovoce tenendosi le mani, ragazzi al biliardo che ridevano e bevevano birra. A quell’ora era sola e aspettava che passassero le ultime due ore per chiudere, pulire e andare a casa. Girava le spalle all’entrata e stava riordinando i bicchieri quando sentì una voce maschile, bassa, quasi un sussurro-          Un caffè, per favore.Si girò con il solito sorriso e con il “subito signore” automatico e lo vide. Appoggiato al banco con le mani lunghe e bianche. Alto, imponente, vestito grigio, camicia bianca, cravatta sui toni dell’azzurro. Aveva occhi chiari pieni di lacrime che scorrevano sulle guance mal rasate, la bocca stretta come per far zittire i singhiozzi. Un volto nudo e un dolore insopportabile. Si passò una mano tra i corti capelli grigi come per liberarsi dei pensieri, ma il pianto silenzioso continuava. Lei restò indecisa tra il “posso fare qualcosa per lei” e il silenzio. Restò in silenzio e preparò il caffè. Immaginò che fosse un poveretto che era rimasto senza lavoro, senza casa, abbandonato dalla moglie o dall’amante, senza soldi, il fallimento dell’azienda, una morte. Gli porse la tazzina fumante con un sorriso e con gli occhi cercò i suoi occhi. C’era un dolore antico che sentì anche lei, come fosse il suo. Il dolore dello smarrimento e dell’abbandono. L’uomo con gesti lenti bevve il caffè, amaro, e mise una moneta sul banco. Lei senza ragione scoppiò a piangere. Lui si frugò in una tasca e prese un pacchetto di fazzoletti di carta, ne prese uno e glielo porse. Ne prese uno anche per sé e si asciugò gli occhi. La guardò con tristezza e le parlò lento, come cercasse, tra tante, le parole giuste-          Non pianga per me. Non ne vale la pena. Lei è giovane, sana, bella, non deve avere dolore.Non riusciva a non  piangere e lui ora la guardava con dolcezza, senza più lacrime.-          Vive ancora con i suoi genitori?-          Si.-          E ha un fidanzato?-          Si.-         Avrà una vita bella. Avrà tutto quello che vorrà. Quello che ora le sembra un peso domani sarà leggero. Non faccia l’errore di accettare la vita che ha, ma trovi la vita che vuole.(Bruce Springsteen "Nebraska")