LE PAROLE

Post N° 262


La Certosa di San Martino. Non ho la competenza, né la cultura necessaria per parlare della storia e dell’arte. Loro l’hanno fatto molto meglio di quello che potrei fare io con le parole e con le immagini. Quello che posso raccontare sono le emozioni. E questo luogo me ne ha regalate molte e molto intense. Ho una particolare passione per i monasteri, le abbazie, i conventi. Per quei microcosmi dove il tempo era scandito dalla preghiera e dal lavoro. E preghiera e lavoro si fondevano con l’arte e la cultura. Da quando ho letto “Il nome della rosa” anche con l’intrigo e il mistero. Ho sempre pensato che il vero centro di questi mondi non fosse la chiesa. Anzi la chiesa l’ho sempre sentita troppo pubblica, troppo materiale, un po’ come la vetrina del negozio. Il vero centro per me è il chiostro. Nel chiostro convergono tutti gli spazi e dal chiostro si irradiano le linee di energia. Quello della Certosa di San Martino ha scardinato la mia idea di chiostro. Tutti quelli che avevo visto erano chiusi e delimitati, come una preghiera sommessa. Erano spazi raccolti intorno a giardini ben curati con una fontanella al centro o un pozzo. Dove la luce entrava timida disegnando ombre profonde in cui potevo immaginare figure intente ad attente letture dei testi sacri. Dove la meditazione era estasi e sofferenza e la solitudine era la compagnia abituale.Qui è esattamente l’opposto. Il chiostro è un grande quadrato di luce. Il porticato non chiude né racchiude, ma dilata e approfondisce. La prima impressione è stata di un ampio respiro, liberatorio e catartico. Dopo la bellezza soffocante e splendente del barocco della chiesa il rigore spoglio di questo quadrato grande e aperto è come liberarsi da un peso sulle spalle. Pochi alberi. L’erba verde delle aiuole. Il piccolo spazio del cimitero dei monaci, un quadrato all’interno del quadrato circoscritto dal bianco marmo e dai teschi coronati di alloro che non fanno paura né ribrezzo.
Il pozzo grande al centro. L’acqua che mormora rapida rimbombando. Ma soprattutto la luce. Quello che mi ha colpito accecandomi è stata la luminosità. Ho immaginato che i monaci a gruppetti passeggiassero ridendo e parlando. Magari giocavano a palla e cantavano. Si sedevano sull’erba e leggevano ad alta voce. Il misticismo cupo e triste non era di questo convento. Qui la religione era la gioia di vita e non l’attesa della morte. Ho visto la giovane ragazza inglese accompagnata dalla zia zitella che nei primi anni del secolo scorso faceva Le Grand Tour affacciarsi ridendo al pozzo e chiedere se poteva gettare una monetina. Ho invidiato lo sguardo di aperta ammirazione del guaglioncello che sbirciava nella scollatura e il rossore che colorava le guance della ragazza. Ho sentito la risata cristallina e il rimbrotto noioso della zia e la calda voce dell’uomo. Mi sono raccontata le storie che avevano camminato su quelle pietre e forse qualcuno era inciampato esattamente dove ero inciampata io. Il cielo sopra quel chiostro è stato l’affresco più bello.