LE PAROLE

Post N° 278


Il giardino è curato.                      (2 di 3)Sono convinta di sorridergli e di chiamarlo con voce dolce, ma nulla si muove di me e dalla bocca arida non esce alcun suono. Lo ricordo bimbo. Mi saltava in braccio piangendo perché si era sbucciato un ginocchio cadendo dal melograno e gli raccontavo la storia che in un melograno ci stanno i coralli e da ogni chicco nasce un pescetto. Smetteva di piangere, ascoltava e voleva un’altra storia. Passavo ore a raccontare storie e poi le scrivevo su quel quaderno dalla copertina verde che ho bruciato nel camino quando lui è morto. Lui? L’altro mio figlio, quello che non piangeva mai e che non si arrampicava sul melograno, che non chiedeva storie, ma le raccontava lui a me. Alla sera, dopo cena, mentre lavoravo a maglia. Mi raccontava di quell’imperatore che aveva incendiato la sua città per divertirsi e di quel tipo buffo che girava con la lanterna accesa anche di giorno per cercare la verità e che poi la verità non si trova per strada, gli dicevo, e a volte è difficile da trovare anche nel buio del tuo cuore, gli dicevo, e stai attento a non perderti quando andrai per strade che non conosci, lasciati sempre dietro i sassolini come Pollicino per poter tornare a casa, da me, gli dicevo, alla sera, dopo cena, mentre lavoravo a maglia e lui era fuori a lavorare. Lui? Mio marito che faceva il poliziotto e lavorava anche di notte. Aveva gli occhi chiari del colore del cielo quando si specchia nel mare e i capelli biondi come il sole ed era il mio sole. La casa si illuminava di lui e non sapevo che cos’era il freddo e la solitudine. Lo amavo. L’ho amato da quando l’ho visto entrare nella trattoria di mio padre e chiedermi, con quel suo aspro accento della gente di montagna, se potevo indicargli la strada per la caserma. L’ho amato per tutto l’amore che ha saputo darmi con lo scontroso carattere che aveva, che diventava forza e dolcezza nelle sue mani sulla mia pelle, che era morbida seta. L’ho amato urlando dolore quando al cimitero c’era tutto il paese a rendergli onore per la sua morte in servizio. L’ho amato stillando odio per chi lo aveva ammazzato come si ammazzano le bestie, al buio e nella campagna dura di neve ghiacciata. L’ho amato in tutto il tempo che ho impiegato per dimenticare di amarlo, senza mai riuscirci veramente. Ho amato quell’uomo grande e grosso, con occhi neri come l’ombra delle grotte, così scuro di pelle e di capelli da crederlo zingaro e il suo carattere allegro. Rideva e mi faceva ridere e le mie figlie erano come lui. Girotondi e filastrocche. Il ballo nella piazza nelle notti d’estate. Lui lavorava in campagna e io curavo le bestie. La casa era di pietra grigia in mezzo ai campi. Sedevo aspettando il tramonto nell’aia, con le bambine che rincorrevano i cani. Lui tornava dalla campagna e mi portava una spiga di grano e un fiordaliso azzurro, come il cielo sopra di noi. Quando si ammalò andammo a vivere in città per farlo curare, ma l’incanto finì. In città le bimbe non ridevano più e la mia bocca prese la piega amara della solitaria fatica del vivere. Tramonta presto la luce in novembre. Dietro la vetrata i pochi lampioni non riescono a rischiarare il giardino. Lei guarda con lo sguardo velato di chi non vede, persa nel buio e inseguendo i fantasmi nella sua mente. Seduta sulla sedia a rotelle, vestita di scuro, nella stanza illuminata dalla luce bianca e asettica, sembra addormentata. W. A. Mozart "Dies irae"