Alfio non si sposò mai e continuò a fare il farmacista, mio fratello Astolfo nemmeno e continuò a fare il salumiere, e nemmeno io che diventai insegnante di lettere al liceo classico.Certo che il periodo dopo il mancato matrimonio fu un tunnel buio in cui non vedevo alcuna via d’uscita. La mia ottusa famiglia e quella ancora più ottusa del mio ex fidanzato si coalizzarono per farci cambiare idea. Furono liti su liti. Riunioni plenarie, alla sera, chè di giorno dovevano stare a bottega a vendere prosciutto e aspirina e sorrisi di circostanza e cosa vuole signora mia sono ragazzate di ragazzi, la paura della settimana prima, ma no, e che diamine! il matrimonio si farà, sono stupide bizze e capricci infantili. Avevano stabilito una linea comune di comportamento, negando la nostra decisione di non sposarci e affermando non fosse altro che un minimo ostacolo, perfettamente superabile.Le due famiglie riunite provarono tutte le blandizie possibili per ricomporre la situazione.Ricordo Alfio che manco osava guardarmi in faccia, muto e sudato, ed io che lo guardavo chiedendomi come avessi potuto amare quello sgorbio di uomo. E amore in me non ce n’era nemmeno più una goccia, se mai ce ne fosse stato, e non fosse solo il volo della mia fantasia affamata dell’innamoramento. Non provavo odio né per Alfio, né per mio fratello Astolfo, semmai solo un po’ di compassione per la difficoltà di quel loro essere diversi.Finchè una sera al colmo dell’esasperazione mi chiusi in camera e feci un altro sciopero della fame. Offesa tremenda per i miei genitori, che finalmente mi lasciarono in pace, con la convinzione ben radicata che fossi pazza. Una notte mio fratello Astolfo venne in camera mia e piangendo mi chiese di perdonarlo. Ci abbracciammo e piangemmo insieme per un po’. In realtà non avevo nulla contro mio fratello, anzi avevo un debito di gratitudine per avermi impedito di sposare Alfio e fare il più colossale errore della mia vita. Fu un momento importante. Si raddrizzarono i miei equilibri e potei ricominciare, anzi cominciare a vivere contando solo su me stessa. Libera. A gennaio dell’anno successivo ebbi la mia prima supplenza in un liceo di un paese dell’hinterland e decisi che quell’appartamento al terzo piano sopra la salumeria, in cui non mettevo più piede da quel lunedì nero, sarebbe diventato la mia casa.Quando esternai ai miei questa mia volontà fu un altro cataclisma.Ma come, con questa bella casa che il nonno Filippo buonanima ha comperato per far stare la famiglia tutta insieme vuoi andare a vivere da sola? Ma guarda i tuoi fratelli. Arnolfo e sua moglie e il bimbo vivono qui. Astolfo che è solo sta qui e tu vuoi andare via. Lo affittiamo l’appartamento. Minacciai un altro sciopero della fame e fui irremovibile. Ma il misero stipendio da supplente non mi sarebbe bastato di certo a comprarmi i mobili per arredare la casa, perché naturalmente i Figoni, una volta saltato il matrimonio con il loro prezioso figliolo, si erano ripresi l’arredamento, né tanto meno mi sarebbe bastato a mantenermi.Accettai il compromesso di dare una mano in negozio il sabato pomeriggio e nei periodi di maggior lavoro, di appiccicarmi il solito sorriso da bottegaia e di inventarmi la voce mielosa del cosa vuole, signora Bianchi, son cose che capitano, morto un papa se ne fa un altro.
Filippa Filippazzi
Alfio non si sposò mai e continuò a fare il farmacista, mio fratello Astolfo nemmeno e continuò a fare il salumiere, e nemmeno io che diventai insegnante di lettere al liceo classico.Certo che il periodo dopo il mancato matrimonio fu un tunnel buio in cui non vedevo alcuna via d’uscita. La mia ottusa famiglia e quella ancora più ottusa del mio ex fidanzato si coalizzarono per farci cambiare idea. Furono liti su liti. Riunioni plenarie, alla sera, chè di giorno dovevano stare a bottega a vendere prosciutto e aspirina e sorrisi di circostanza e cosa vuole signora mia sono ragazzate di ragazzi, la paura della settimana prima, ma no, e che diamine! il matrimonio si farà, sono stupide bizze e capricci infantili. Avevano stabilito una linea comune di comportamento, negando la nostra decisione di non sposarci e affermando non fosse altro che un minimo ostacolo, perfettamente superabile.Le due famiglie riunite provarono tutte le blandizie possibili per ricomporre la situazione.Ricordo Alfio che manco osava guardarmi in faccia, muto e sudato, ed io che lo guardavo chiedendomi come avessi potuto amare quello sgorbio di uomo. E amore in me non ce n’era nemmeno più una goccia, se mai ce ne fosse stato, e non fosse solo il volo della mia fantasia affamata dell’innamoramento. Non provavo odio né per Alfio, né per mio fratello Astolfo, semmai solo un po’ di compassione per la difficoltà di quel loro essere diversi.Finchè una sera al colmo dell’esasperazione mi chiusi in camera e feci un altro sciopero della fame. Offesa tremenda per i miei genitori, che finalmente mi lasciarono in pace, con la convinzione ben radicata che fossi pazza. Una notte mio fratello Astolfo venne in camera mia e piangendo mi chiese di perdonarlo. Ci abbracciammo e piangemmo insieme per un po’. In realtà non avevo nulla contro mio fratello, anzi avevo un debito di gratitudine per avermi impedito di sposare Alfio e fare il più colossale errore della mia vita. Fu un momento importante. Si raddrizzarono i miei equilibri e potei ricominciare, anzi cominciare a vivere contando solo su me stessa. Libera. A gennaio dell’anno successivo ebbi la mia prima supplenza in un liceo di un paese dell’hinterland e decisi che quell’appartamento al terzo piano sopra la salumeria, in cui non mettevo più piede da quel lunedì nero, sarebbe diventato la mia casa.Quando esternai ai miei questa mia volontà fu un altro cataclisma.Ma come, con questa bella casa che il nonno Filippo buonanima ha comperato per far stare la famiglia tutta insieme vuoi andare a vivere da sola? Ma guarda i tuoi fratelli. Arnolfo e sua moglie e il bimbo vivono qui. Astolfo che è solo sta qui e tu vuoi andare via. Lo affittiamo l’appartamento. Minacciai un altro sciopero della fame e fui irremovibile. Ma il misero stipendio da supplente non mi sarebbe bastato di certo a comprarmi i mobili per arredare la casa, perché naturalmente i Figoni, una volta saltato il matrimonio con il loro prezioso figliolo, si erano ripresi l’arredamento, né tanto meno mi sarebbe bastato a mantenermi.Accettai il compromesso di dare una mano in negozio il sabato pomeriggio e nei periodi di maggior lavoro, di appiccicarmi il solito sorriso da bottegaia e di inventarmi la voce mielosa del cosa vuole, signora Bianchi, son cose che capitano, morto un papa se ne fa un altro.