LE PAROLE

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Mi muovo per gli spazi.   (1 di 3)Mi muovo per gli spazi di questa casa come galleggiassi in acque infide e sconosciute.Guardo e non vedo, anzi vedo ma non riconosco, oppure riconosco ma non accetto. Sfioro con le dita gli oggetti, senza toccarli veramente, col timore che potrebbero essere diversi da quello che sembrano. Un anno è passato. Mi fermo nella grande stanza che chiamavamo con la risata nella voce “il nostro living”. È come l’ho lasciata quel giorno di aprile quando ho chiuso la porta e ho pensato che qui non sarei più tornata. Un anno è passato. Un anno talmente difficile che vorrei ricordarne nulla, perché nulla è stato, lo spazio vuoto della tua assenza.E del nostro tempo insieme mi vengono in mente solo le cose peggiori, le litigate, i malumori, il dolore rabbioso ed impotente, le lacrime ingoiate e il sorriso per nasconderle e non quelle belle che abbiamo vissuto qui, in questa casa. La nostra casa, e mi si appanna lo sguardo.Ripenso a questo anno.La solitudine è un marchio a fuoco che mi porterò sempre addosso, che non si cancellerà con altre compagnie, altre amicizie, risate, parole, viaggi, con niente che possa inventarmi. Il fraseggio di quella vecchia canzone “…la solitudine che tu mi hai regalato io la coltivo come un fiore…” mi rimbomba nella testa insieme al silenzio delle finestre chiuse come occhi ciechi. Sono ferma in mezzo alla stanza e non azzardo né un gesto, né una parola a voce alta.Vorrei piangere, ma non voglio piangere. Chiudo gli occhi come per vedere meglio, come per concentrarmi su questo silenzio troppo pesante. E arrivano i ricordi. A ondate, una burrasca di immagini e sensazioni, reali e tangibili che posso perfino sentirne l’odore.Quello della tua pelle, quando sul terrazzo nei pomeriggi estivi prendevamo il sole, oziosamente. Dicevi “Meglio di qualsiasi spiaggia ultrafamosa, noi due e il sole, cosa vuoi di più?”L’idea di prendere una casa sul lago era stata tua. Eravamo all’inizio della nostra storia. È stato il periodo bellissimo in cui scoprivamo noi e questo dire noi ci faceva sentire mischiate nei pensieri e nei desideri. Rubavamo il tempo a tutti i nostri impegni per vederci, anche solo per mezz’ora.Tu lavoravi in ospedale, con orari assurdi e stanchezze devastanti, con la tua sensibilità perennemente ferita dall’impossibilità di accettare il dolore degli altri che diventava il tuo dolore, e il rimorso di non aver mai fatto abbastanza. Io ero nel mondo patinato, assurdo e fittizio della moda a cercare  di far coincidere la mia creatività con la follia delle invenzioni più insensate. Avevamo storie e fidanzamenti che erano già quasi matrimoni. L’incontro fu il più banale possibile. Eri di turno al pronto soccorso quando arrivai con un profondo taglio nella mano provocato dalla mia distrazione nell’usare il coltello per il pane e poi eri sempre tu a tagliare il pane con quell’espressione beffarda e dolcissima “lascia stare che tu non sei tagliata per queste cose”. Mi conquistò la tua pacatezza e la fiducia che ispiravi. E poi fu la pelle. Ludovico Einaudi "Divenire"