LE PAROLE

Post N° 358


Mi muovo per gli spazi.   (3 di 3)L’epoca in cui iniziammo la nostra vita insieme non era pronta a vedere una coppia di donne come normalità. Ci ritrovavamo a sera, ferite dalla cattiveria gratuita di chi non riusciva a vedere l’amore per l’amore. Io piangevo di rabbia impotente e tu mi consolavi con la tua immensa forza e mi dicevi "fottitene, non valgono le tue lacrime, non valgono il mio dolore per il tuo dolore". Tu rabbiosa e sdegnata mandavi all’inferno tutto e tutti ed io ti abbracciavo per dirti che avresti avuto me, per sempre. Quel sempre che sapevamo dentro e che ci univa più forte di un matrimonio.Dormivamo abbracciate, nel bozzolo caldo del riuscire sempre a capirci, ad essere una per l’altra il mondo intero. Dal tuo coraggio ho imparato il mio coraggio. La fiducia che tu avevi in me costruì la fiducia in me stessa. Lasciai il lavoro che non mi piaceva e mi dedicai a dipingere. Il successo dei miei quadri fu il tuo successo. Tu continuasti a fare il medico in ospedale, con impegno e dolore, nell’unica maniera in cui sapevi essere, con sincerità e passione. La tua passione era contagiosa e nessuna delle nostre amicizie ne era immune. I viaggi che facemmo insieme e con gli amici e le vacanze erano un modo per conoscere e capire gli altri e noi. I nostri venticinque anni insieme sono la mia vita e l’essenza che ne resta è l’armonia, come un tramonto d’autunno sul lago. Mi dicesti di essere ammalata mentre eravamo sulla terrazza a prendere il sole in un pomeriggio di settembre, limpido e sicuro. Ricordo la tua voce calma e dolce, spiegarmi che non c’era molto tempo ancora, che non c’era più nulla da fare, che avrei dovuto aiutarti a morire quando tu non avessi più avuto la forza per farlo. Urlavo che non era vero, che dovevamo andare da altri dottori, in altri ospedali, che si erano sbagliati, che ti eri sbagliata, anche se eri medico. Mi arrabbiavo con te e ti rinfacciavo di avermi mentito, che allora non era solo stanchezza quella degli ultimi tempi che ti faceva restare immobile per ore sul divano, che non potevi lasciarmi da sola, a vivere, e che vita mai sarebbe stata la mia, senza te. Mi rassegnai, anzi imparai ad accettare. Mi insegnasti a convivere con la morte come fosse un regalo. Ogni giorno, ora, attimo, un prezioso regalo da tenere tra le mani il più a lungo possibile, perché poi non ce ne sarebbero più stati. A marzo venimmo a vivere qui, al lago. Il tempo era finito, lo sapevamo. Mia madre venne a stare per un po’ con noi, per aiutarci. Non passava giorno senza che qualche amica, qualche amico non venisse a trovarci. Ai primi di aprile non volesti più vedere nessuno, non volesti che più nessuno vedesse l’ombra della tua bellezza.Era un aprile caldo e limpido, un’estate in anticipo, con il fantasma della tua voce sonora e forte mi dicevi che era bella l’estate e volevi stare al sole sulla terrazza.Non mi chiedesti mai di ucciderti perché sapevi che non ne sarei stata capace, ti lasciasti morire tra le mie braccia, mentre ti parlavo della vacanza che avremmo fatto quell’anno.Moristi guardandomi, con le labbra che dicevano "ti amo". In quel momento anche la mia vita finì. Ci misi quasi un anno a riprendere in mano un pennello e dipinsi il tuo volto bello, la tua pelle scura, i tuoi capelli biondi, i tuoi occhi chiari come il lago in quell’estate in anticipo, la tua bocca che senza parole dice “ti amo”. Oggi, ad un anno dal tuo funerale sono in questa nostra casa, per viverci, per trovare il coraggio di vivere. Ho spalancato le finestre e lascio entrare la luce e il sole, come piaceva a te, per ritrovarti, ancora, con me. Ludovico Einaudi "Giorni Dispari"