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Post N° 265

Post n°265 pubblicato il 02 Ottobre 2006 da liberante

Aprì la porta                        (due di tre)

Adesso stava ferma sul secondo gradino e fermo il sorriso del ricordo sulle sue labbra.
Gli inverni gelidi di vento e burrasche nella cucina grande e calda con il fuoco e il profumo del cibo che lento cuoceva e la voce di Nonna che raccontava le storie del mare e dei pesci. Le estati sulla roccia bruciata di sole e il tuffo nell’acqua trasparente e Nonno sulla barca a brontolare con il sorriso sotto gli spessi baffi. Le primavere verdi e colorate dei fiori e gli autunni di cielo grigio e sfolgoranti tramonti. La strada bianca di polvere e il vecchio furgone con cui Nonno l’accompagnava a scuola nel piccolo paese arroccato sul porto.
Ricominciò a scendere con una mano appoggiata alla parete e tastando il vuoto con il piede prima di appoggiarlo. A voce alta contava
“tre, quattro, cinque…”
Ormai il buio era assoluto, che la luce della porta era nascosta dal giro della scala.
“tredici, quattordici, quindici.”
Trovò l’interruttore e lo spinse con fretta e la fievole luce della lampadina appesa al soffitto illuminò la cantina.
Tutto esatto come nella sua memoria. Le tre botti allineate sulla parete di destra, le assi di legno accatastate sul fondo davanti a lei e sulla sinistra lo scaffale dove erano riposte le bottiglie di vino, inesorabilmente vuoto.
Le sembrò piccolo lo spazio e soffocante.
Da bambina quella era una stanza grande in cui scendeva saltellando e ridendo e si fermava a contare le bottiglie e a cercare piccoli pezzi di legno con cui costruire i suoi castelli delle fate.
Tornava ora. Ferma, in mezzo alla cantina sentiva le lacrime confondersi nell’umidità di quello spazio chiuso.
Tornava ora e vedeva per la prima volta la vecchia valigia di pelle scura in mezzo alla stanza.
Si inginocchiò a fianco e già sapeva cosa conteneva.
Le tremavano le mani ad aprire i lacci induriti dal tempo e le si ingolfava il respiro.
Piangeva e con le mani sporche di polvere rigava la faccia come quando bambina giocava tutto il giorno con terra e sabbia.
Profumo di lavanda.
Appena aperta la valigia quell’odore l’aveva aggredita con dita graffianti di ricordi dimenticati.
In bell’ordine c’erano i suoi quaderni, i diari, i fogli, i disegni, i libri, le due bambole, il castello delle fate, le fotografie, la raccolta di conchiglie, quella di sassi e di vetrini colorati, il suo vestito rosso con le maniche a palloncino e l’abito da sposa di Nonna.
Appoggiò le mani su quelle cose senza spostarle.
Le sapeva e le conosceva.
Ne voleva solo sentire il calore.
Chiuse gli occhi e richiuse la vecchia valigia di pelle scura che era appartenuta a Nonno, quando ancora andava per mare.
La prese in mano e con passo deciso risalì la scala.
Dimenticò accesa la luce.

(Ivano Fossati - C'è un tempo)

 
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Commenti al Post:
liberante
liberante il 02/10/06 alle 20:16 via WEB
" Dicono che c'è un tempo per seminare e uno che hai voglia ad aspettare un tempo sognato che viene di notte e un altro di giorno teso come un lino a sventolare. C'è un tempo negato e uno segreto un tempo distante che è roba degli altri un momento che era meglio partire e quella volta che noi due era meglio parlarci. C'è un tempo perfetto per fare silenzio guardare il passaggio del sole d'estate e saper raccontare ai nostri bambini quando è l'ora muta delle fate. C'è un giorno che ci siamo perduti come smarrire un anello in un prato e c'era tutto un programma futuro che non abbiamo avverato. È tempo che sfugge, niente paura che prima o poi ci riprende perché c'è tempo, c'è tempo c'è tempo, c'è tempo per questo mare infinito di gente. Dio, è proprio tanto che piove e da un anno non torno da mezz'ora sono qui arruffato dentro una sala d'aspetto di un tram che non viene non essere gelosa di me della mia vita non essere gelosa di me non essere mai gelosa di me. C'è un tempo d'aspetto come dicevo qualcosa di buono che verrà un attimo fotografato, dipinto, segnato e quello dopo perduto via senza nemmeno voler sapere come sarebbe stata la sua fotografia. C'è un tempo bellissimo tutto sudato una stagione ribelle l'istante in cui scocca l'unica freccia che arriva alla volta celeste e trafigge le stelle è un giorno che tutta la gente si tende la mano è il medesimo istante per tutti che sarà benedetto, io credo da molto lontano è il tempo che è finalmente o quando ci si capisce un tempo in cui mi vedrai accanto a te nuovamente mano alla mano che buffi saremo se non ci avranno nemmeno avvisato. Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare. "
(Rispondi)
 
 
aurora492005
aurora492005 il 02/10/06 alle 23:49 via WEB
Come mi fa bene pensare che ci sarà anche il mio tempo per sorridere con gli occhi oltre che con le labbra....grazie ,perchè leggerti è serenità...Eli
(Rispondi)
 
 
 
liberante
liberante il 03/10/06 alle 18:16 via WEB
e vedrai che bello sarà il tempo dei sorrisi! arriverà piano che quasi non lo sentirai e poi...e poi!
(Rispondi)
 
lupopezzato
lupopezzato il 02/10/06 alle 21:36 via WEB
Dicono che c’è un tempo per tirar sassi e un tempo per raccoglierli. Non ho voglia di tirarli, solo raccoglierli e metterli uno sull’altro. Farne una casa. "Verrai?" Non c’è fretta. La casa non è pronta. Ho bisogno di sassi e tu di tempo per pensare. Te la racconto intanto. Una casa fatta di pietra con una tenda che fa da porta. Una finestra. Un davanzale. Una pianta. Una margherita. In un angolo, il mare. E il sole. Nell’altro angolo, per la sera, ci sarà la luna. "Ora non c’è?" "No, ora non c’è" "Perché?" "Me la consegnano solo se ti va".
(Rispondi)
 
 
liberante
liberante il 03/10/06 alle 18:20 via WEB
Raccontami ancora di questa casa di pietre bianche e di un mare del blu più bello al mondo. Della margherita che cresce allegra e della tenda arancione che svolazza con la brezza della sera. E della luna che arriverà puntuale quando la cena sarà pronta in tavola. Racconta, che racconti cose belle.
(Rispondi)
 
 
 
lupopezzato
lupopezzato il 03/10/06 alle 22:28 via WEB
Quando smisi di raccontare la casa era finita. Pietre bianche e muschio. Che la casa fosse finita lo capii guardando in alto. Ora c’era il soffitto e non il cielo. “Verrà?” pensai. Chiusi gli occhi. Catturavo rumori. La tenda arancione che si lasciava accarezzare dalla brezza della sera mentre, nel suo angolo, il mare del blu più bello del mondo arricciava svogliatamente l’onda. Riaprii gli occhi ed andai alla finestra. Sul davanzale la margherita che cresceva allegra, adesso dormiva. Fuori c’era la luna e nella casa di pietre bianche sentii, più forte dell’odore del muschio di sera, l’inconfondibile odore della cotoletta. Sorrisi. Eri venuta.
(Rispondi)
 
 
 
 
liberante
liberante il 04/10/06 alle 20:36 via WEB
la "cutuleta" detto alla milanese...
(Rispondi)
 
Vincanto_Editions
Vincanto_Editions il 03/10/06 alle 19:43 via WEB
La vedo quella donna rincorrere una bambina giù per quelle scale insidiose. Attraversa antri cavernosi, dove si respira un’aria immobile, non toccata dal tempo, che serbano ricordi incorrotti di altre epoche profumate e soffici. La vedo ripercorrere l’intero tragitto di un viaggio, doloroso, cominciato in un’altro tempo. E poi, alla fine, guardo la compiutezza di quella riconquistata unità donna-bambina-donna… E lei invece, cosa riesce a vedere oltre le lacrime?….
(Rispondi)
 
 
liberante
liberante il 04/10/06 alle 20:37 via WEB
mi spaventa quello che non riesce a vedere. chiude gli occhi.
(Rispondi)
 
lungoilviale
lungoilviale il 04/10/06 alle 14:40 via WEB
come ci restano impressi nell'anima i ricordi...non sono come le foglie d'autunno che cadono e che calpesti, che adori scrocchiare, sentirne il profumo, guardarne il colore (se ne andranno)...; sono cose del presente, una vita che cammina.
(Rispondi)
 
 
liberante
liberante il 04/10/06 alle 20:39 via WEB
i ricordi costruiscono. quello che sono ora è la somma di tutto quello che sono stata. sapere accettare il ricordo, anche quello che lacera e fa sanguinare, è un dono.
(Rispondi)
 
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DA LEGGERE

 

Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)   

 

" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......

..... continua qui  

 

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