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Filippa Filippazzi

Post n°306 pubblicato il 15 Gennaio 2007 da liberante
 

Ho la mia vita, il mio lavoro, le mie amicizie, la mia casa.
Già. La mia casa.
Nel senso che è mia perché è intestata a me e ci vivo da più di vent’anni. Ma non è stato facile sentirla mia.
Come nulla è stato facile per me. Per i miei genitori avrei dovuto avere una vita semplice e sicura, che tanto tutta la fatica e i sacrifici li avevano già fatti loro. Noi figli avremmo solo dovuto continuare quello che loro avevano iniziato. Perché il nonno Filippo buonanima nel 1910 apriva bottega e infatti l’insegna del negozio è ancora quella storica, più volte restaurata, che recita con la grandiosità da fornitori della real casa
“Filippazzi e Figli - Salumieri dal 1910”.
Quell’insegna e quel lavoro avrebbero dovuto essere il mio futuro assicurato di tranquillità e benessere.
Per i miei primi tredici anni di vita non ci fu alcun problema. Asilo, elementari, medie nella mia memoria sono ricordi leggeri, anche se il rapporto con il mio nome era di odio puro.
E almeno fossi stata l’anonima figlia di un impiegato qualunque.
Eh no.
Io ero la figlia del Filippazzi, il salumiere, ma sì quello che ha quel bel negozio sul corso a fianco della farmacia del dottor Figoni.
Tutti mi conoscevano.
Quando cominciai a capire qualcosa in più delle cose di sesso mi consolava il pensiero che anche il figlio del farmacista non era messo meglio di me in quanto a cognomi.
Dicevo. Fino alla terza media tutto filò liscio. Il casino scoppiò quando a tredici anni si doveva decidere che scuola avrei fatto.
Correva l’anno 1968 e che anno!
In famiglia la contestazione studentesca era vista male, malissimo, anzi non era vista affatto, nel senso che per loro erano tutte stupidate di ricchi figli di papà che era meglio se andassero a lavorare invece di fare tutte quelle buffonate per le strade.
Il guaio fu quando dissi a testa alta e per la prima volta alzando la voce che volevo fare il liceo classico.
Ricordo benissimo la scena.
Eravamo a tavola alla sera.
Il nonno Filippo che non era ancora buonanima a capotavola da una parte, la Nonna Elia dall’altra, papà e mamma e i miei due fratelli di due anni più piccoli di me, gemelli, Astolfo e Arnolfo, che la fantasia della mia famiglia nei nomi era sconfinata, ed io. Mentre mangiavamo il minestrone in silenzio saltai fuori con
“mi voglio iscrivere al liceo classico”.
Quella sera capì che sarebbe stata una dura lotta.
Per loro era una cosa assurda, con tutto quel bendiddio del negozio come potevo pensare di fare una scuola così inutile, ma fai ragioneria che almeno possiamo risparmiare i soldi del contabile che ci tiene i conti, ma che cosa te ne fai di una scuola che non sai nemmeno a cosa serva. Invece lo sapevo benissimo a che cosa mi sarebbe servito il liceo classico. A iscrivermi all’università per fare lettere e insegnare latino e greco.
Nella scuola di suore dove andavo, il latino lo insegnava una suorina piccola e bianca bianca di pelle, dalla voce dolce e una gran passione per quella lingua. Semplicemente mi ero innamorata della difficoltà di una lingua che più nessuno parlava. Suor Giorgina avendo capito il mio interessamento mi aveva aiutato a tradurre alcuni brani di Virgilio e di Tibullo e la mia era stata passione pura.
Feci perfino uno sciopero della fame per vincere l’ostinazione della mia ottusa famiglia e quello fu l’affronto peggiore. Rifiutare il cibo per una famiglia di salumieri era un’offesa inaudita.
Fu la strategia vincente.
Da quel momento mi considerarono la pazza della famiglia, quella di cui vergognarsi e mi lasciarono fare quello che volevo.
Studiavo con passione ed ero la più brava sempre in tutto, la classica secchiona, antipatica, a cui nessuno badava più di tanto se non per chiedere di passare i compiti.
Aiutavo anche in negozio per la pace familiare, ma provavo sempre un senso di fastidio solo a sentire l’odore salato del prosciutto e quello dolciastro del maiale e facevo una gran fatica ad appiccicarmi in faccia il sorriso del cosa le diamo signora Bianchi stamattina? arrivederci e tante cose belle a suo marito, che manco sapevo chi fosse il marito.
Invece i miei fratelli amavano il negozio e dopo tre anni di istituto alberghiero erano a bottega con grandi idee di rinnovamento e diversificazione. Con loro iniziò quella ricerca di qualità nel prodotto da offrire ai clienti e di immagine elegante e un po’ antiquata che li avrebbe salvati dall’invasione della così detta grande distribuzione.
Gli anni del liceo passarono tra libri di scuola e libri che leggevo con avidità e leggevo davvero di tutto dai classici russi ai gialli mondadori senza capire bene né gli uni né gli altri.
Passarono tra cotte disastrose per compagni di scuola che manco mi vedevano e una solitudine cupa e rabbiosa.
Passarono ritmati dalla musica, quella che si ascoltava dalle prime radio libere.

(forse..continua)

 
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DA LEGGERE

 

Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)   

 

" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......

..... continua qui  

 

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