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Sospesa.
Forse in bilico.
Sicuramente non stabile.
Eppure non sento graffi e ferite.
Non ho demoni che mi mordono le carni e sangue che scendendo si coagula sulla pelle.
Nulla soffoca il respiro e frammenta l’aria in pezzi di rabbia.
Nessun boccone pesa sullo stomaco a rendere acidi i sapori.
Eppure mi fanno male i muscoli della faccia a sorridere.
Le risate increspano la superficie come una lieve brezza sulle acque ferme di uno stagno.
Fanno fatica le parole, incespicando su dolori vecchi e rancori nuovi.
Gli occhi guardano banalmente e nulla ferma il mio sguardo accendendo un colore diverso.
Trovo una piccola strada e la seguo.
Al buio, non accendo la luce.
Preferisco tenere le mani avanti e con il palmo tastare per trovare l’ostacolo. Seguirne i contorni, tastarne il materiale, conoscerlo e riconoscerlo. Spingerlo via, sul bordo.
Ci sono ostacoli che non si spostano.
Mi ci appoggio con tutte le mie forze, ma loro restano lì, beffardi e inamovibili.
E allora mi fermo.
Sospesa.
Forse in bilico.
Sicuramente non stabile.
Tra le scelte.
Girare intorno a quel macigno che non vedo, ma so che c’è, e so che è formato di fredde pietre attaccate insieme, come fossero tutte le macerie di tutte le mie vite.
Freddo sasso, enorme e pesante, troppo pesante.
Al buio ho paura di quello che potrei incontrare lasciando la piccola strada per cercarne un’altra che mi porti oltre.
Sospesa.
Non so più dove ho messo il martello con cui ho distrutto, polverizzandoli, macigni ben più grossi e anche se lo avessi ancora non riuscirei nemmeno a sollevarlo.
Non trovo più in me la forza devastante di voler cambiare tutto perché non mi va bene più niente.
Sospesa.
Mi osservo dall’alto vivere la vita che ho voluto.
E non mi basta, non mi basta nemmeno questo.
Non riesco più ad accontentarmi di questa piccola strada e non riesco ad andare avanti.
È zavorra nell’anima e nei passi questo amore che non voglio lasciare.
Lo conosco e lo riconosco, l’ostacolo che buca le mie decisioni.
Rimanere attaccata a questo filo di seta di illusione, senza vedere che è un filo marcio, putrefatto e talmente usato da essere inservibile.
Devo dar forza alle mie mani e con rabbia, amica rabbia compagna di guerre e battaglie, spezzare in mille pezzi irriconoscibili questo muro che mi ferma,
sospesa,
e buttarli dietro, a coprire le orme dei passi già camminati per non ritrovare i perversi percorsi e le mille maniere in cui sono bravissima a farmi del male.
A mani nude devo rompere e spezzare la pietra, graffiarla e spaccarla fino a non avere più carne sulle dita, fino ad avere solo sangue ed un dolore così vivo da crederlo gioia e sbriciolare fino all’ultimo pezzo questo macigno che mi sbarra la strada con riflessi cangianti di luci inesistenti e poi la polvere lanciarla lontano a disperdersi nel vento e che non ne resti traccia alcuna.
Questo devo fare.
Dovrei fare.
Dovrei.
Sospesa.
Forse in bilico.
Sicuramente non stabile.
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Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)
" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......
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