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Aprì la porta (due di tre)
Adesso stava ferma sul secondo gradino e fermo il sorriso del ricordo sulle sue labbra.
Gli inverni gelidi di vento e burrasche nella cucina grande e calda con il fuoco e il profumo del cibo che lento cuoceva e la voce di Nonna che raccontava le storie del mare e dei pesci. Le estati sulla roccia bruciata di sole e il tuffo nell’acqua trasparente e Nonno sulla barca a brontolare con il sorriso sotto gli spessi baffi. Le primavere verdi e colorate dei fiori e gli autunni di cielo grigio e sfolgoranti tramonti. La strada bianca di polvere e il vecchio furgone con cui Nonno l’accompagnava a scuola nel piccolo paese arroccato sul porto.
Ricominciò a scendere con una mano appoggiata alla parete e tastando il vuoto con il piede prima di appoggiarlo. A voce alta contava
“tre, quattro, cinque…”
Ormai il buio era assoluto, che la luce della porta era nascosta dal giro della scala.
“tredici, quattordici, quindici.”
Trovò l’interruttore e lo spinse con fretta e la fievole luce della lampadina appesa al soffitto illuminò la cantina.
Tutto esatto come nella sua memoria. Le tre botti allineate sulla parete di destra, le assi di legno accatastate sul fondo davanti a lei e sulla sinistra lo scaffale dove erano riposte le bottiglie di vino, inesorabilmente vuoto.
Le sembrò piccolo lo spazio e soffocante.
Da bambina quella era una stanza grande in cui scendeva saltellando e ridendo e si fermava a contare le bottiglie e a cercare piccoli pezzi di legno con cui costruire i suoi castelli delle fate.
Tornava ora. Ferma, in mezzo alla cantina sentiva le lacrime confondersi nell’umidità di quello spazio chiuso.
Tornava ora e vedeva per la prima volta la vecchia valigia di pelle scura in mezzo alla stanza.
Si inginocchiò a fianco e già sapeva cosa conteneva.
Le tremavano le mani ad aprire i lacci induriti dal tempo e le si ingolfava il respiro.
Piangeva e con le mani sporche di polvere rigava la faccia come quando bambina giocava tutto il giorno con terra e sabbia.
Profumo di lavanda.
Appena aperta la valigia quell’odore l’aveva aggredita con dita graffianti di ricordi dimenticati.
In bell’ordine c’erano i suoi quaderni, i diari, i fogli, i disegni, i libri, le due bambole, il castello delle fate, le fotografie, la raccolta di conchiglie, quella di sassi e di vetrini colorati, il suo vestito rosso con le maniche a palloncino e l’abito da sposa di Nonna.
Appoggiò le mani su quelle cose senza spostarle.
Le sapeva e le conosceva.
Ne voleva solo sentire il calore.
Chiuse gli occhi e richiuse la vecchia valigia di pelle scura che era appartenuta a Nonno, quando ancora andava per mare.
La prese in mano e con passo deciso risalì la scala.
Dimenticò accesa la luce.
(Ivano Fossati - C'è un tempo)
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DA LEGGERE
Antonio Gramsci "La Città Futura" (1917)
" Odio gli indifferenti: credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e partigiano. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il rinnovatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che circonda la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scoraggia e qualche volta li fa desistere dall’impresa “eroica”. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. ".......
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