Il Libro di Sabbia

Mo Yan, la raffinata arte del dolore.


In occasione del conferimento del Nobel per la letteratura a Mo Yan (poteva andare meglio... ma anche molto peggio!) pubblico una vecchia recensione al romanzo Il supplizio del legno di sandalo. La raffinata arte del dolore.(Mo Yan, Il supplizio del legno di sandalo, Einaudi 2005)Il Celeste Impero all’inizio del Novecento, terra di antichissime tradizioni erose dall’avanzata della modernità, fa da scenario ad un romanzo che è essenzialmente la storia di due grandi artisti al loro canto del cigno: da una parte Sun Bing, massimo interprete dell’Opera dei Gatti, che per vendetta e per dolore guida la rivolta contro la ferrovia tedesca che sta sconvolgendo il feng shui; dall’altra parte Zhao Jia, boia supremo della dinastia Qing, che nella rigida gerarchia sociale è meno di un cane ma sul patibolo è come un dio.Alle vite dei due attori si intrecciano quelle di comprimari che, a turno, emergono narrando come in un assolo la tragedia come si compie attraverso i loro occhi. Xiaojia, figlio del boia e macellaio di cani, che per l’incantesimo di un baffo di tigre vede la vera natura degli uomini. Poi Quian Ding, magistrato diviso tra il dovere – incarnato dal boia – e la coscienza – il condannato. E infine, al centro di tutto, Meiniang, fanciulla cui la sorte ha imposto di essere il contrappeso di tanti destini: figlia del condannato, nuora del carnefice, amante del magistrato.“Sulla terra non sei riuscito a ribellarti e non potrai farlo nemmeno all’inferno. Non è permesso ribellarsi in nessun luogo.” In queste parole, rivolte dal carnefice ad una delle sue vittime, è racchiuso il significato di un mondo imprigionato in gerarchie invalicabili: nella Cina imperiale il magistrato è lontano dall’uomo comune quanto il drago dal cane.E l’atroce esecuzione di Sun Bing, il supplizio che deve sconvolgere il mondo, è il peccato impossibile da espiare, la colpa destinata a trascinare nel baratro la dinastia Qing. Sul patibolo si celebra la morte del ribelle, ma anche quella dell’impero millenario giunto al suo epilogo: i diavoli stranieri, alieni dai capelli biondi e gli occhi verdi, tengono in pugno l’imperatore e persino l’imperatrice madre, il “Vecchio Buddha” che dall’ombra governa le sorti della Cina. Come la ferrovia, strada d’acciaio su cui viaggia il progresso, sconvolge il feng shui, così l’irruzione del Novecento e del mondo esterno rompe l’incantesimo in cui è imprigionato l’impero.Mo Yan narra la sua storia con pazienza, senza la fretta di giungere ad un finale già annunciato nelle prime righe del libro; e la narra con minuzia, indugiando nella descrizione dei pensieri come nella rappresentazione della sofferenza. Il suo linguaggio è crudo, concreto, anatomico; talvolta sembra quasi compiaciuto nel soffermarsi sulla violenza inflitta ai corpi e sul loro sconvolgente disfacimento. Ogni orrore è mostrato nella sua nuda realtà senza pietà per il personaggio e per il lettore. Ma è proprio in questo orrore, rappresentato e quasi celebrato, che nasce la riflessione sul significato di vite sacrificate al nulla, di sofferenze fisiche intollerabili inflitte per obbedienza ad un codice ormai eroso dai secoli: per la Cina il tempo dei draghi è finito e solo un’ultima, atroce rappresentazione può immortalare il passato prima che cali il sipario.(Gazzetta di Parma, 1 settembre 2005)