Il Libro di Sabbia

Quando gli italiani cercavano l'America e trovarono l'inferno.


(Laura Pariani, Dio non ama i bambini, Einaudi 2007)Carlo Baja Guarienti-«Dicevano che qui a Buenos Aires si faceva la Merica, coi soldi da raccogliere a palate sulle piante e per strada...»Argentina, autunno 1908: i barrios periferici della capitale, i quartieri più poveri, i conventillos nei cui minuscoli appartamenti stanno ammassate tre generazioni di italiani sfuggiti a una miseria – quella conosciuta, atavica, quasi entrata nel patrimonio genetico – solo per cadere in bocca a un’altra, nuova e ignota. Gli uomini sono straccivendoli, braccianti a giornata, vigilantes i più fortunati, mentre i bambini e ragazzi suonano l’organetto lungo le strade, in mezzo agli scheletrici cani randagi, o lavorano al macello ripulendo il sangue e le frattaglie. Le donne e le bambine lavorano come sguattere, cuoche o ricamatrici; ma alcune, come la dodicenne Adela, si prostituiscono e ci sono ragazze che a sedici anni hanno già tre figli da padri diversi e sconosciuti.In questo scenario desolato si muovono i protagonisti di Dio non ama i bambini, il nuovo romanzo di Laura Pariani pubblicato da Einaudi. Un libro duro, che non dissimula il degrado ma, anzi, ne racconta la genesi e gli elementi costitutivi: povertà, disperazione, alcolismo, un’ignoranza che ottenebra gli occhi e chiude le orecchie alle sofferenze altrui. Un ritratto che emerge con vividezza ancora più drammatica in quanto realizzato a partire da un fatto di cronaca: una spaventosa serie di omicidi di bambini protratta per anni ai danni di figli di emigranti italiani. Delitti efferati, puri esercizi di lucido sadismo ambientati fra le baracche abbandonate e i terreni incolti, maleodoranti, dietro al macello: una sorta di giallo la cui soluzione – anch’essa non romanzesca ma storica – è un incubo nell’incubo.Buenos Aires è una babele di lingue diversissime, i suoi disperati abitanti parlano un idioma ibrido che l’autrice ricrea sulla carta: vocaboli spagnoli, italiani, piemontesi, milanesi e napoletani si mischiano a formare un mosaico che ha tutta la forza espressiva e la coloritura dei dialetti. Il romanzo è un coro di voci, muta continuamente la sua prospettiva per ascoltare i pensieri di tutta un’umanità randagia; e - soprattutto nella prima parte - è l’epopea di un popolo che cerca di ricostruire un’identità andata in pezzi. Al centro di tutto, vittime e prima o poi carnefici, sono i bambini affidati al vecchio detto che fa da epigrafe al libro: lascia che pianga, così diventa grande.(Gazzetta di Parma, 30 giugno 2007)