Il Libro di Sabbia

Cose turche.


Approfittando della recente uscita del nuovo saggio di Ricci ripropongo una vecchia intervista sul tema dell'incontro con il «turco».Intervista a Giovanni RicciCarlo Baja Guarienti-Qual è il confine ultimo dell’Europa? Rispondere non è semplice, qualsiasi prospettiva (storica, culturale, economica) si assuma. Ci sono territori liminari, stati e popoli la cui natura sembra sfuggire ad una classificazione certa e univoca, e in questo senso la Turchia – il cui eventuale ingresso nell’Unione Europea è al centro di un animato dibattito - è forse il territorio liminare per antonomasia: le sue frontiere racchiudono un lembo d’Europa non esteso ma ricchissimo di storia, ma la sua religione e la sua cultura sembrano più vicine al Medio Oriente che all’occidente. E l’uomo turco, vicino all’Europa eppure lontanissimo, è esso stesso figura che nella cultura occidentale occupa da secoli i due lati di un confine.Ne abbiamo parlato con Giovanni Ricci, professore ordinario di Storia Moderna presso l’università di Ferrara, che, dopo essersi occupato nei suoi libri di diversi aspetti di storia sociale e delle mentalità (è stato anche finalista al premio Viareggio), ha approfondito nel volume Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell’Europa moderna, edito dal Mulino nel 2002 e recentemente pubblicato in lingua turca dal maggiore editore di Istanbul, il complesso sistema di percezioni – spesso contrastanti – che da secoli vede nel «turco» (termine che associava nell’immaginario collettivo ogni individuo di fede musulmana) una figura ricorrente della mentalità europea.«Alla base c’è un problema di convivenza – afferma Ricci - in una sorta di condominio che è il Mediterraneo, mare che aveva perso la caratteristica di omogeneità religiosa presente nei primi secoli della cristianità: dall’inizio dell’avanzata araba, nel VII secolo, le due rive del Mediterraneo si trovarono in una situazione di reciproca sorveglianza. Dopo la crisi delle crociate medievali la guerra, la paura, l’odio si accentuarono soprattutto a partire dal XIV secolo che vide la comparsa nel Mediterraneo di un popolo guerriero la cui potenza sostituì quella degli arabi indeboliti dalle crociate: i turchi ottomani. La grande forza dimostrata da questo popolo negli scontri in campo aperto determinò la convinzione di trovarsi di fronte ad un nemico pressoché invincibile e demoniaco, un avversario da combattere con ogni mezzo. Quest’immagine di scontro endemico, rimasta nella tradizione, è tuttavia inesatta. Dal punto di vista dei rapporti tra stati si può osservare che Venezia, primo stato cristiano affacciato sulla potenza nemica, nei tre secoli e mezzo tra la caduta di Costantinopoli e la fine della Repubblica di San Marco fu in pace con la Turchia per circa tre anni su quattro. La Francia, poi, a partire dal 1536 stabilì alleanze con l’impero Ottomano in chiave antiasburgica tentando di rompere, mediante la carta turca, l’accerchiamento delle forze di Carlo V: persino il re cristianissimo di Francia, dunque, non esitò ad allearsi con i nemici della fede.»E nella società padana del Cinquecento?Accanto al timore e all’odio si trovano certamente sentimenti di attrazione e ammirazione: prima di tutto per la forza militare dei turchi, in seguito anche per la particolare devozione religiosa che, pur rivolta a pratiche non cristiane, venne elogiata da diversi scrittori. Questo dualismo si riscontra anche nel microcosmo delle città padane che, non essendo centro di poteri sovranazionali come le grandi capitali, si possono considerare come retrovie dell’Europa. Il primo segno dell’attrazione è la richiesta di oggetti – tappeti, vasellame e altro – pagati a prezzi altissimi ai mercanti che li ottenevano con la mediazione della Repubblica di Ragusa in Dalmazia; e tra i «prodotti» esotici più ricercati c’erano gli schiavi «mori», in genere donne e bambini, esibiti nelle corti come curiosità d’oriente. Ma talvolta tra gli schiavi e i padroni si instauravano rapporti che andavano al di là dello sfruttamento della forza lavoro: nel Cinquecento si verificarono diversi casi di uomini che lasciarono in eredità le proprie sostanze e la libertà a schiave che avevano amato. Comportamenti del tutto differenti possiamo riscontrare nei confronti delle masse di uomini, spesso catturati nelle guerre nei Balcani, destinati al remo nelle flotte europee: in queste occasioni, che vedevano al centro della scena non il singolo individuo ma la massa degli «infedeli», la violenza era quasi sempre predominante.Quali differenze tra le due società rivelano i diversi destini dei turchi in Italia e degli italiani in Turchia?Due erano i modi per varcare la frontiera religiosa tra i due popoli: uno era la scelta volontaria di convertirsi (o «rinnegare» a seconda del punto di vista), l’altra era la trasformazione coatta di chi veniva catturato e reso schiavo. Per la maggior parte dei prigionieri il destino era la servitù in condizioni durissime e, di conseguenza, una probabile morte nel giro di pochi anni. Tuttavia esisteva per gli schiavi cristiani in Turchia una possibilità in più, quella dell’ascesa sociale, determinata da una fondamentale differenza tra le due società: quella europea, concepita come una scala di stratificazioni con una scarsa mobilità – specialmente in ascesa – conferiva un alto valore alla nascita e al sangue mentre quella turca, fortemente caratterizzata dai due poli di un sovrano dal potere pressoché illimitato e una massa di sudditi sottoposti a tale potere, consentiva a individui particolarmente capaci di muoversi nella piramide sociale fino a raggiungere posti di rilievo. Alcuni uffici, anche di notevole responsabilità, furono ricoperti da uomini di origine servile o da schiavi: si ebbero visir e gran visir figli di cristiani e persino cristiani di nascita, bambini rapiti sulle coste del Mediterraneo e allevati come musulmani in Turchia oppure uomini fuggiti per sottrarsi alle tasse o alla giustizia. Questa differenza si riflette nella grande disparità tra il numero delle conversioni spontanee nelle due direzioni: tra il XVI e il XVIII secolo gli islamici divenuti cristiani furono forse alcune migliaia, i cristiani “fatti turchi” alcune centinaia di migliaia.L’archetipo dell’uomo musulmano medievale e rinascimentale, così impresso nel folklore e nella mentalità italiana, è giunto fino a noi?L’immagine del turco rimasta nella cultura popolare e nella tradizione europea è, in realtà, un prisma di immagini diverse, tuttavia l’elemento che ha prevalso è indubbiamente quello della paura e della diffidenza. Questo è dovuto anche alla circostanza storica che ha visto le armate ottomane all’attacco per vari secoli con incursioni giunte fino alle mura di Vienna: la cultura popolare, cancellate e messe da parte le fasi passate di collaborazione, ha tramandato una fondata memoria di turchi all’assalto. Un altro aspetto è stato lo spettacolo di usi propri alla corte del sultano, come lo strangolamento dei generali sconfitti dal nemico o l’uccisione dei possibili pretendenti al trono, osservati con orrore dall’occhio europeo. Vanno poi aggiunte le violente incursioni corsare sulle coste: che erano più o meno reciproche, ma ovviamente ogni schieramento teneva conto solamente dei propri danni e del proprio dolore. Tutto questo pesa sull’eredità storica, per quanto remota, della Turchia e condiziona certamente il giudizio espresso dalle nazioni occidentali nei confronti di questo stato.È però importante sottolineare un punto. Nell’incontro/scontro tra le due culture le violenze e i massacri si ebbero da entrambe le parti ed è forse superfluo, oltre che storicamente difficile, tentare di stabilire da quale parte penda la bilancia: il calcolo delle vittime, anche qualora si riuscisse a realizzarne uno, non sarebbe tale da assolvere uno dei due schieramenti o condannare l’altro.Nel nostro tempo che vede ancora scontri tra religioni per il possesso di terre sacre ci si chiede quanto possano avere influito luoghi e simboli nella storia della vicinanza tra Europa e Turchia: che cosa ha rappresentato per l’Europa cristiana la conquista  ottomana della capitale dell’Impero Romano d’Oriente nel 1453?Il valore simbolico e l’impatto psicologico della conquista turca di Costantinopoli furono enormi, certamente sproporzionati alle conseguenze più strettamente politiche dell’evento: l’impero bizantino era già da molto tempo ridotto quasi alle sole mura della capitale e quasi annientato nella sua potenza, già costretto a dichiararsi suddito del sultano e sottoposto a tributi e umiliazioni. Molti videro nella caduta della seconda Roma un segno dell’approssimarsi dell’Apocalisse, il preludio ad un nuovo impero universale in chiave musulmana, e lo stesso Maometto II appoggiò questa visione dichiarandosi sultano dei turchi e imperatore dei romani; inoltre l’effimera conquista di Otranto nel 1480 e il primo assedio di Vienna nel 1529 corroborarono l’idea di un destino incombente sulla cristianità. Questo destino fu subito interpretato da alcuni in una chiave di palingenesi provvidenziale, come una punizione divina per i peccati dei popoli cristiani attuata attraverso la furia di un nemico implacabile e terribile: il turco.(Gazzetta di Parma, 7 giugno 2005)