Il Libro di Sabbia

Michele Mari, un mostro per amico.


Michele Mari ha vinto con Verderame (Einaudi) il Premio Grinzane Cavour: ripropongo la recensione fatta all'epoca dell'uscita del libro.(Michele Mari, Verderame, Einaudi 2007)Carlo Baja Guarienti-Le scelte stilistiche consapevoli, in qualsiasi direzione procedano, godono certamente di pari dignità, ma è indubbio che un progetto linguistico personale arricchisca particolarmente il panorama – per così dire – della biodiversità di una scena letteraria: fa quindi piacere ritrovare scrittori che non si arrendono alla seduzione di una lingua narrativa neutra e livellata, all’idea che l’autore debba scomparire del tutto dietro alle storie nascondendo la propria voce in un periodare dall’ingombro minimo.Uno di questi è Michele Mari, narratore e saggista: la sua lingua è proteiforme, si nutre di voci desuete come di coniazioni originali senza rinunciare a una controllata patina dialettale nello sforzo di esprimere, non solo nei dialoghi, ogni sfumatura. Nella filigrana delle parole di Mari si legge chiaramente la passione per i classici, per autori come quel Melville – non a caso evocato nella prima pagina del romanzo – il cui sapiente impasto di voci dotte e linguaggio comune ha creato immagini di potenza inimitabile.Ma è un altro rimescolare, simile in fondo a quello della tecnica narrativa, a dare il titolo al più recente libro di Mari: Verderame (Einaudi), poltiglia velenosa e affascinante – anzi, affascinante proprio per il suo malefico potere – che il protagonista e voce narrante, il tredicenne Michelino, vede come un attributo quasi genetico del contadino Felice. Un nome sbagliato, questo, quasi un augurio smentito con feroce ironia da un corpo deforme e minato dalle malattie, da una mente che si decompone ogni giorno perdendo nel breve tragitto fra la casa e la vigna pezzi del proprio passato: Felice è un mostro, insieme meno e più di un uomo, ed è il miglior amico che possa desiderare un adolescente cresciuto fra i fantastici incubi di Lovecraft e Hoffmann.Proprio nella mente di Felice, mare burrascoso in cui affiorano a volte relitti di volti ed eventi sbiaditi, si avventura Michelino nell’estate del 1969, dominata dai volti televisivi di Aroldo Tieri, Orso Maria Guerrini e Arnoldo Foà. Là, in quella mente contorta che procede fra minacciose reticenze e lampi rivelatori, il giovane troverà pane per la sua fame di mostri e avventure: lumache carnivore e fantasmi di doppie personalità, scheletri nazisti e nobili russi in fuga dalla Rivoluzione d’ottobre, un Gran Coniglio senza occhi a metà strada fra Lewis Carroll e Tim Burton.Il protagonista di Verderame è un tredicenne degli anni Sessanta situato agli antipodi rispetto agli adolescenti «bruciati» dei romanzi di questi anni: posseduto dal demone della letteratura, maneggia con disinvoltura la mnemotecnica di Cicerone e le atmosfere del romanzo gotico mentre è quasi del tutto all’oscuro dei misteri del sesso. L’unico tratto che lo rende troppo adulto, forse, è la fervente e quasi arrabbiata militanza antifascista ribadita con una certa frequenza, ma l’osservare il mondo attraverso un filtro letterario è quanto di più sincero si possa trovare in chi abbia contratto nell’infanzia la malattia della lettura: è proprio a tredici anni che il confine fra la realtà e la pagina scritta – altra forma, non meno intensa, di realtà – si fa più sottile e permeabile.(Gazzetta di Parma, 3 novembre 2007)