Il Libro di Sabbia

Le ombre dei giorni perduti


(H. Mantel, I fantasmi di una vita, Einaudi 2006)Carlo Baja Guarienti-L’autobiografia – qualora non sia solo autocelebrazione - è un’impresa coraggiosa; ma quando una vita è stata segnata dal dolore, scintilla dell’arte, l’atto di ricostruire e narrare ad altri diviene quasi taumaturgico. Si riaprono le ferite, certo, ma solamente per poterle curare definitivamente.Per Hilary Mantel, scrittrice d’origine irlandese, la finestra sul passato si apre con la decisione di vendere Owl Cottage, la casa di campagna nel Norfolk sulle cui scale si aggira il placido fantasma di un patrigno mai conosciuto fino in fondo. Un fantasma a suo modo familiare, uno dei tanti spettri che affollano la vita di chi non dimentica il proprio passato e – anzi – lo trasforma in nutrimento per lo spirito.Riaffiorano così i primi ricordi di un’infanzia in campagna, fra nonne e zie irlandesi, vecchie canzoni di ribellione e grandi scoperte: l’esistenza, soprattutto, di un mondo segreto, un’essenza nascosta delle cose che gli adulti non riescono a vedere. Aneddoti all’apparenza slegati fra loro, ma in realtà pervasi da un’intima coerenza, che l’autrice ricorda con l’ironia seria di chi comprende l’importanza delle piccole stranezze dell’infanzia.Con il passare degli anni, tuttavia, lo stile muta in accordo con la tonalità dominante degli eventi: la tavolozza assume tinte più scure mentre la realtà mostra il suo volto meno tenero. L’Inghilterra dei primi anni ’60 non è un buon posto per una donna cattolica, i suoi tre figli e un uomo che non è un marito e frequenta le chiese anglicane. I legami famigliari si dissolvono fra incomprensioni che non saranno mai superate e la fine dell’infanzia è per Hilary l’inizio di un vagare fra indirizzi mai definitivi; una vita quasi clandestina, nel continuo timore che i pettegolezzi distruggano il fragile equilibrio faticosamente raggiunto.Le stagioni scorrono: gli studi, l’occasione di costruire un futuro negato a molte figlie della classe operaia, il matrimonio affrontato con l’avventatezza dei diciott’anni. Poi la malattia, che si annida nel corpo e contagia la mente: un tarlo che consuma entrambi senza rivelare il suo vero volto, camuffandosi per sfuggire alle diagnosi e lavorare indisturbato nell’ombra. Il dolore annebbia i pensieri e devasta il fisico, la magrezza di un tempo lascia il posto a una dilagante obesità. L’ironia dell’autrice sembra incrinarsi, suggerisce che accettare la radicale trasformazione dei propri lineamenti è troppo anche per chi è abituato a combattere.Alla fine di questo I fantasmi di una vita (Einaudi) l’autrice tira le somme della propria vita riconoscendo alla scrittura la capacità di donare un’effimera consistenza alle ombre di tutto ciò che è andato perduto fra le pieghe degli eventi; e la prima ombra è la maternità, simulacro illusorio d’immortalità, consolazione di un’incombente vecchiaia vissuta – condanna di ogni ateo – come un capolinea senza uscita.«Il paese dei figli non nati è attraversato da strade mai prese, da quei sentieri cui abbiamo girato le spalle. Complice la condizione dell'essere solo ipotesi, quelle creature si acquattano nel buio delle occasioni mancate».(Gazzetta di Parma, 28 febbraio 2007)