Il Libro di SabbiaLibri e dintorni... |
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FRASI SPARSE.
«Per sopravvivere agli assalti degli atei come dei veri credenti mi sono tenuto nascosto nelle biblioteche, tra pile di volumi pieni di polvere, per nutrirmi di miti e cimiteriali leggende. Ho fatto festini di panico e terrore di cavalli imbizzarriti, di cani latranti, di gatti impazziti... briciole scosse da lapidi tombali. Col passare degli anni, i miei compatrioti del mondo invisibile svanirono uno a uno, mentre i castelli crollavano o i nobili affittavano i loro giardini visitati dagli spiriti a club femminili o a tenutari di tavole calde con alloggio. Privati delle nostre dimore, noi, spettrali errabondi dell'universo, siamo sprofondati nel catrame, nelle latrine, in sfere di incredulità, di dubbio, di mortificazione, o di assoluta derisione.»
Ray Bradbury, Sull'Orient, direzione nord.
FRASI SPARSE
«… nella carrozza entrò un uomo che cominciò a suonare un violino che sembrava fatto con una vecchia scatola di lucido da scarpe e, nonostante io non abbia proprio senso musicale, quei suoni mi colmarono delle più strane emozioni. Mi pareva di udire una voce di lamento provenire dall’Età dell’Oro. Mi diceva che noi siamo imperfetti, incompleti, non più simili ad una bella tela intessuta, ma piuttosto come un fascio di corde annodate insieme e gettate in un angolo. Diceva che il mondo era un tempo interamente perfetto e generoso e che quel mondo perfetto e generoso esisteva ancora, ma sepolto come un cumulo di rose sotto tante palate di terra. Gli esseri fatati e i più innocenti tra gli spiriti vi avevano dimora e si dolevano del nostro mondo caduto nel lamento delle canne mosse dal vento, nel canto degli uccelli, nel gemito delle onde e nel soave pianto del violino. Diceva che presso di noi i belli non hanno senno e gli assennati non sono belli e che i nostri momenti migliori sono offuscati da qualche volgarità, o dalla trafittura di un triste ricordo, e che il violino deve rinnovarne sempre il lamento. Diceva che soltanto se coloro che vivono nell’Età dell’Oro potessero morire per noi sarebbe possibile essere felici perché quelle voci tristi si acquieterebbero, ma loro debbono cantare e noi lacrimare finché le porte eterne non si spalancheranno.»
William Butler Yeats, Il crepuscolo celtico.
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(Adriano Prosperi, Giustizia bendata. Percorsi storici di un'immagine, Einaudi 2008) Carlo Baja Guarienti - Una donna bellissima, dagli occhi bendati, sta ferma sulle scale di un tempio; stringe in una mano una spada – con cui trafigge a caso torme di innocenti – e nell’altra una bilancia carica dell’oro di chi schiva i suoi colpi. All’improvviso un giovane dal berretto rosso le strappa la benda: gli occhi della donna, corrosi e imputriditi, rispecchiano «la follia di un’anima morente». Così, all’inizio del XX secolo, Edgar Lee Masters rappresentava la giustizia nella sua Antologia di Spoon River. Qualche anno prima Masters, avvocato, aveva tentato invano di difendere un giovane simpatizzante anarchico: nell’aula di un tribunale la legge aveva mostrato apertamente il proprio vero volto colpendo senza ragione, solo per ossequio al potere, un innocente. La benda, la bilancia, la spada: a questi attributi, la cui associazione i tribunali del mondo anglosassone conoscono molto meglio di quelli italiani, è dedicato l’ultimo libro di Adriano Prosperi, Giustizia bendata. Percorsi storici di un’immagine. Prosperi, docente alla Scuola Normale Superiore di Pisa, in questo volume studia la storia attraverso le immagini e le immagini attraverso la storia in quanto, come lo stesso autore sottolinea, il gioco dei simboli è storicamente determinato e dietro a ogni particolare di un’iconografia si nasconde un significato. Osserviamo, così, la bilancia passare dalle mani della dea egizia Ma’at a quelle della giustizia dei pittori umanisti: in mezzo, a congiungere con una linea questi punti lontanissimi, la Bibbia e le rappresentazioni medievali del Giudizio Universale. Qui la bilancia è attributo dell’arcangelo Michele, pesatore di anime, che punisce i peccatori con la spada; spada che ritorna, in alcune raffigurazioni del Giudizio, come forma visibile della sentenza pronunciata da Cristo. Molto più problematico il ruolo della benda, che copre gli occhi di Cristo nella Passione e che ancora oggi è imposta ai condannati a morte. Nell’iconografia della sinagoga ebraica essa rappresenta la cecità di chi non seppe riconoscere il figlio di Dio e, analogamente, al suo primo apparire come attributo della giustizia ha un significato negativo: nella Nave dei folli di Sebastian Brant, opera pubblicata a Basilea nel 1494, è proprio un folle a nascondere la verità agli occhi della giustizia. Nel giro di pochi anni, tuttavia, la cecità della giustizia diviene garanzia di equità: il giudice, bendato, applica la legge senza che le apparenze del mondo possano indirizzare la sua sentenza. Ma quale volto ha oggi la giustizia? Quello impassibile attribuitole dal Giambologna e da Battista Dossi o quello folle e corrotto intravisto da Lee Masters? Lo spettacolo offerto dai tribunali, quello spettacolo che le telecamere mostrano al pubblico e che spesso divide gli spettatori in ultras della condanna o dell’assoluzione, è una rappresentazione di equità o di parzialità? Difficile rispondere. Ma forse non è un caso che anche in Italia gli storici (fra gli autori di importanti studi recenti troviamo anche Ottavia Niccoli, Cesarina Casanova e Giancarlo Angelozzi) si interroghino sulla nascita, sulla natura, sui limiti d’azione di quella misteriosa e terribile donna bendata.
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