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FRASI SPARSE.
«Per sopravvivere agli assalti degli atei come dei veri credenti mi sono tenuto nascosto nelle biblioteche, tra pile di volumi pieni di polvere, per nutrirmi di miti e cimiteriali leggende. Ho fatto festini di panico e terrore di cavalli imbizzarriti, di cani latranti, di gatti impazziti... briciole scosse da lapidi tombali. Col passare degli anni, i miei compatrioti del mondo invisibile svanirono uno a uno, mentre i castelli crollavano o i nobili affittavano i loro giardini visitati dagli spiriti a club femminili o a tenutari di tavole calde con alloggio. Privati delle nostre dimore, noi, spettrali errabondi dell'universo, siamo sprofondati nel catrame, nelle latrine, in sfere di incredulità, di dubbio, di mortificazione, o di assoluta derisione.»
Ray Bradbury, Sull'Orient, direzione nord.
FRASI SPARSE
«… nella carrozza entrò un uomo che cominciò a suonare un violino che sembrava fatto con una vecchia scatola di lucido da scarpe e, nonostante io non abbia proprio senso musicale, quei suoni mi colmarono delle più strane emozioni. Mi pareva di udire una voce di lamento provenire dall’Età dell’Oro. Mi diceva che noi siamo imperfetti, incompleti, non più simili ad una bella tela intessuta, ma piuttosto come un fascio di corde annodate insieme e gettate in un angolo. Diceva che il mondo era un tempo interamente perfetto e generoso e che quel mondo perfetto e generoso esisteva ancora, ma sepolto come un cumulo di rose sotto tante palate di terra. Gli esseri fatati e i più innocenti tra gli spiriti vi avevano dimora e si dolevano del nostro mondo caduto nel lamento delle canne mosse dal vento, nel canto degli uccelli, nel gemito delle onde e nel soave pianto del violino. Diceva che presso di noi i belli non hanno senno e gli assennati non sono belli e che i nostri momenti migliori sono offuscati da qualche volgarità, o dalla trafittura di un triste ricordo, e che il violino deve rinnovarne sempre il lamento. Diceva che soltanto se coloro che vivono nell’Età dell’Oro potessero morire per noi sarebbe possibile essere felici perché quelle voci tristi si acquieterebbero, ma loro debbono cantare e noi lacrimare finché le porte eterne non si spalancheranno.»
William Butler Yeats, Il crepuscolo celtico.
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(M. Veneziani, Amor fati, Mondadori 2010)
Carlo Baja Guarienti
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Il paradiso terrestre è un pomeriggio di fine maggio nella campagna del Sud, un mosaico di ricordi - la condivisione degli affetti familiari, il primo risveglio dei sensi, la corsa a tuffarsi nelle onde del mare - e di sensazioni preziose nella loro quotidiana eppure rara intensità. «Amor fati» è essere grati al destino, cogliere l’esistenza di un disegno più grande della singola avventura umana e accettare con gioia l’idea di essere una parte di quel disegno. I paesaggi dell’Italia meridionale e i ricordi di una vita semplice - ma non per questo banale - incorniciano le riflessioni di Marcello Veneziani su un tema arduo e attualissimo in questo inizio di millennio: la condizione umana tra caso e destino. «Amor fati. La vita tra caso e destino» (Mondadori, pag. 242, euro 18,00) è una dichiarazione di equidistanza fra i «progressisti del nulla» e i «conservatori del morto», ovvero fra coloro che brindano con macabro compiacimento all’esperimento fallito della società umana e coloro che pronosticano un imminente futuro senza speranza rifugiandosi nel rimpianto di un passato mitizzato. L’«amor fati» di Veneziani non è né il desiderio di contemplare la propria fine né l’«amor fati» dell’uomo di Nietzsche, che si immerge nell’eterno ciclo del mondo imprimendo con la propria volontà un impulso al ciclo stesso: è piuttosto il piacere di sentirsi compresi di un’unità in cui ogni parte trova con umiltà e insieme con gioia il proprio posto e vibra in armonia con il tutto. C'è molto neoplatonismo in questo anelito all’unione con il principio ordinatore del mondo, in questa tensione a fornire il proprio contributo alla musica dell’universo. «Amor fati - scrive Veneziani nelle pagine conclusive del saggio, - è la gratitudine al destino. Per chi vive la solitudine è la vera, essenziale compagnia. Amando il fato, non vivi e non muori da solo, ma entri in una Rete suprema, ti connetti a una Comunione di anime e a una sfera superiore che prende in custodia la tua esistenza, dalla sua radice fino alla sua destinazione. Amor fati è la persuasione - o forse la rivelazione - che non si è soli nella solitudine e non si è morti nella morte ».
(Gazzetta di Parma, 10 agosto 2010)
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