A Room of One's Own

La dote


Leggo il post  di Ossimora, in cui racconta del suo lavoro nelle piantagioni di tabacco per poter avere la disponibilità di un po’ di soldi tutti suoi,  e per associazione di idee mi tornano alla memoria i racconti di mia mamma, di quando andò a lavorare in risaia per guadagnare i soldi per farsi la dote e sposarsi. La dote, nel linguaggio giuridico e nella concezione delle classi sociali benestanti è il patrimonio, grande o piccolo, che la moglie portava al marito in occasione del matrimonio, e che doveva contribuire al sostentamento proprio e della famiglia. Nel lessico delle classi sociali più modeste, invece, la dote rappresentava semplicemente il corredo della sposa, ed  é in questa accezione che io ne ho sentito sempre parlare  da mia mamma. Avendo quattro figlie femmine, fin da quando eravamo piccole ha acquistato, pagandoli a rate, pacchi di biancheria per la nostra ‘dote’:  lenzuola, tovaglie, asciugamani che si sono accumulati negli armadi in attesa di un matrimonio che nella sua immaginazione prima o poi sarebbe certamente avvenuto.  Credeva così di risparmiarci quello che era toccato a lei, che per farsi  il corredo aveva dovuto andare a lavorare nelle risaie del Piemonte. Ce ne parla, a volte, con un misto di rimpianto per la ragazza che allora era, e di incredulità, per la vita che aveva potuto sopportare: in mezzo al fango, con l’acqua che arrivava a mezza gamba, curva sotto il sole a piantare riso. Ogni volta che lo ricorda, ci racconta del postino che alla fine della stagione volle vedere in faccia quella ragazza che per tutto il periodo della monda aveva ricevuto regolarmente, ogni giorno, una lettera dal fidanzato. E ogni volta mentre l'ascolto penso che per me la cosa più incredibile é prorprio  che quell’innamorato così assiduo fosse la persona che ho conosciuto come mio padre.