Creato da: angela_pier il 29/11/2005
ognuno sogna qualcosa che scardini il mondo ordinario

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Luglio 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30 31        
 
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

Ultime visite al Blog

cassetta2venere_privata.xfaber1957marco45migboy94giupinnaenyghteladymiss00Ros.Jsofiaaaaanote_stonategigo70duca_azzurroskidroll
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

 

 

Post N° 4

Post n°4 pubblicato il 02 Dicembre 2005 da angela_pier
Foto di angela_pier

c'era una speranza appoggiata in fondo ai miei occhi, come una scopa dimenticata in un angolo, hai finto di non accorgertene.

non hai avuto nemmeno il coraggio di essere spietato..

hai lasciato che io facessi la scelta,

che io mi prendessi la colpa,

in cambio mi hai offerto un taxi.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Post N° 3

Post n°3 pubblicato il 01 Dicembre 2005 da angela_pier
Foto di angela_pier

each man kills the things he
loves, come sappiamo bene.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Post N° 2

Post n°2 pubblicato il 29 Novembre 2005 da angela_pier
Foto di angela_pier

Ore 4 del mattino.

 

Intrisa dell’ultimo sogno pomeridiano, una giovane donna vagava per le prime oscurità di una notte incipiente, prossima ad avere il sopravvento sulle finali, sparute tracce di un tramonto rassegnato. Vagava ancora intorpidita dal lungo sonno, vagava passandosi lentamente, incolpevole, l’indice della mano sinistra sul labbro inferiore, ed appariva assorta, ancorché svogliata, non sveglia del tutto, non del tutto pronta.

 

Indossava, noncurante, un velo nero tessuto di metafore sottili e insidiose, e due labbra rosse di barbagli intriganti. Indossava una voglia che non si placava, ed una sete di sangue ereditata, come d’obbligo, da antenati vampireschi. Ondulava su magrissimi tacchi metallici, fatti esclusivamente per scatenare turbolenti desideri, a lungo rimossi, di spettatori affamati di fami insaziabili. Due aghi feroci che ticchettavano sull’anima molliccia di acquirenti angosciati, due sostegni acrobatici, di certo non progettati per lunghe festive passeggiate, ma per sfrenate e rapidissime corse in vortici di passione, sì.

 

Oh, signori!, la donna dal velo nero e dagli altissimi tacchi, oh, signori miei!, il profumo del peccato che le aleggia intorno come una scorta vigile, quando esce di casa, lo sguardo da serpente e l’andatura da medusa, abbandonata all’andirivieni di maree ancestrali che sfuggono, da sempre, ai controlli della ragione.

 

Ed il suo nome è: PECCATO,

P per passione pietosa,

E per eccitazione visionaria,

C per carne suadente,

C per contorsioni della mente,

A per amore carnale e di pensieri e di spirito e di vita,

T per quel tatuaggio che occhieggia sul ventre indecente,

O per gli orgasmi che distribuisce con commerciale sorriso.

 

Ed alcuni, che le sono più intimi, la chiamano Passione, per il bisogno di non confonderla con le banali necessità della gente comune e non sbagliare i gesti e le parole quando toccano i suoi contorni intoccabili o parlano dei suoi pensieri segreti.

E quelli che non la conoscono, o che la evitano per timore, la chiamano Vizio, da tenere in un cassetto, di cui non dire, al quale sono rivolti brevi sguardi irrisolti, fra lenzuola agitate da insonnie di repressioni quotidiane, per cui il sonno tranquillizzante non viene e non cala, rassicurante, l’oblio dell’ignoranza.

 

Abbagliata dall’ultima morte pomeridiana, una giovane donna vagava per le prime oscurità di una notte incipiente, strizzando l’occhio velenosa ad una schiera di grigiastri professori di vita, usi a Te Deum del tutto fuori luogo, quando cioè proprio da ringraziare dio non c’è, che da secoli si sforzano di colorare a loro modo i sogni di allievi inchiodati per forza a banchi di scuole dai nomi incomprensibili, inutili, come sono inutili gli olocausti. Inutili nomi per inutili scuole, per quei battaglioni di discepoli annoiati e recalcitranti che in verità aspiravano solo ad un attimo di abbacinante visione di quel velo nero, così allusivo, ed all’ascolto conturbante del bellico ticchettìo di quei due spilli dolorosi.

 

Se solo uno dei molti giudici saccenti avesse alzato la testa dai suoi volumi rilegati, se avesse scrutato per un secondo l’ombra strisciante dei suoi pensieri, su quella Madre delle Lacrime, avrebbe di certo compreso l’errore iniziale, avrebbe visto la voragine spalancata davanti a sé, e avrebbe tremato, oh, signori miei!, avrebbe avvertito il gelido brivido dell’equivoco irreparabile, per i mille falli compiuti ed i milioni di peccati da scontare nel suo Ade giornaliero, che lo attendeva fremente. Perché una giovane donna vagava allora ed ancora si aggira fra i suoi uffici, e scivola fra le vostre ansie logore, e poi scoppia improvvisa, o piuttosto è un brusìo sommesso e caparbio che non riposa nei silenzi delle vostre rinunce.

 

Perché il suo nome è anche Passione, lo sapete, e ribolle nell’ampolla che tenete quieta dietro lo sterno, signori miei carissimi, caro uditorio ipocrita, e scuote le fronde delle fantasie che si rifugiano dunque sui rami più alti, e frusciano quando una brezza, assai meno che un vento, sfiora la cima delle libidini percosse. Se volete, in un momento di coraggio, uno!, chiamatela Fine, che sia la vostra ultima spiaggia, che sia il termine affannoso del vostro viaggio, cha appaia come l’ultima stazione di posta, cambio dei cavalli prima di passare il confine. Se aveste l’audacia di fissarla, potreste indovinare la sua rotta fra le nuvole, per indicarvi un’incertezza e la scia madida dei gemiti e i resti galleggianti dell’ultimo naufragio dei vostri minimi bisogni e dei vostri massimi appetiti. I relitti abbandonati di quello che avreste potuto avere, oppure soltanto lo scoglio annerito su cui si sono schiantate le vostre abdicazioni.

 

Chiamatemi Sesso, Carne e Passione del sesso e della carne, e suonate alla porta su cui trovate impresse queste parole; e una giovane donna velata di nero entrerà in voi, secondo le aspettative, e strapperà la vostra carne e rovescerà le vostre viscere, per darvi modo di leggere il destino, e legherà per sempre la vostra mente e il vostro cuore in un cappio che vi darà vita e morte.

 

Chiamatemi Peccato, com’era, è e sarà sempre, che sia la vostra dose, la cura dei dolori, la medicina che stringe e torce il vostro io piegato, genuflesso in misere camere deserte e inutili di abusi.

 

Chiamatemi come volete, con il nome che vi viene di getto, che mi volti finalmente verso di voi e vi uccida conclusivamente.

 

E quando, di nuovo, fortunosamente, ancora ritorna la luce del giorno, signori, fate che sia una speranza, quella che vi morde il cuore vendicativa, nei mormorii di un altro risveglio. Fate che sia un auspicio, quello che vi accarezza la mente, mentre dirigete passi ciabattanti verso un cesso che attende i resti delle vostre notti. E nei fondi dei caffè che trangugiate in piedi, sforzatevi di interpretare i presagi di un altro maleficio.

 

Quella donna silente sarà al suo posto di combattimento, nella nebbia della prossima sera, avvolta da una brina che anch’essa passerà. Datele un nome che vi faccia schiumare, datele un nome che sia una fuga, un segreto che voi soli, stavolta, conoscete, chiamatela Miracolo, che aspettate ogni giorno, che pregate tremanti, ché il capo si china nelle eterne navate infinite ripiegate dentro di voi, ecclesiastici, canonici, proni ai voleri dei manipolatori. Quando verrà l’ora, se non avrete mai tentato il salto, impotenti, vi accorgerete che vi sarà restato soltanto un nome da poter dare a quell’immagine, e sarà…

 

…e sarà sfrontato, lo sguardo che si conficca nella testa, e sarà un assassinio, se vorrete andare più in fondo, e un grido che nelle notti d’estate risveglia il canto dei solitari. E se così dev’essere, che sia, ma la mano si ferma ed esita, miseri arcieri, epigoni di stragi annunciate. La mano si ritira e voi, miei piccoli signorotti, la guardate, quella mano estratta per afferrare un brandello di vita, fissate le vostre ritirate, e i miei occhi spavaldi nel fondo dei vostri.

 

Così, come per caso, ecco che ci fissiamo a vicenda, venditrice e acquirenti. Suvvia!, bando alle chiacchiere, bando ai sorrisi fasulli, alle parole bugiarde e alle smorfiette, arriviamo alla fine, ché questo ci meritiamo entrambi, denaro e piacere, la duplice versione della stessa storia, il duplice risultato di un singolo esperimento; è quel che abbiamo sempre cercato, preda e predatrice, l’apparenza di un lussuoso pomeriggio senza problemi.

 

Macchiatemi pure la pelle con i nomi più sporchi, quelli che non vi ho suggerito, che sia una sorpresa, se ancora non avverto l’odore del vostro sudore, come in un’agiografia; macchiatemi dei vostri pensieri più sporchi, quelli che io vi suggerisco maligna, che sia per caso, se ancora vi assolvo, compassionevole sorella nel mio pallore intrigante. E sappiate solo voi che sotto questo saio sibilano i sussurri di voci proibite, bisbigliano le luci di lampioni rossi di carta di riso. Fate uno sforzo per afferrare il senso, provate ad arrampicarvi lungo questo muro divorato da felci selvatiche, che non esitano, voraci proprio come le mie gambe che non si trattengono dall’aprirsi al mondo, a tutto il mondo, che non si trattengono dal divaricare i portali carnosi della mia villa, affondata in un bosco che la diritta via era smarrita non per lussuria, e or mi sovvien l’eterno, ei fu siccome immobile, steso fra i panni disfatti e imbrattati del mio personale campo di battaglia, povero te, che non ricordi più, o mai, con quale militare destrezza, terrapieno dopo terrapieno, io assalto la tua fortezza prefabbricata.

 

Ecco, sei arrivato al Mistero: è così che nacqui ed è così che ogni notte voglio morire, dispersa, non disertrice, profuga, sopravvissuta a stento e a dispetto a micidiali pogrom di carnefici, che siete poi voi, miei diletti assassini, siete voi che con lame arrugginite (o metafora freudiana!) sezionate questo corpo sapiente di inginocchiatoi, indifeso da astute falsità, saporito di condimenti oleosi di terre d’Oriente, che il vostro estenuato esotismo non di marca invoca. Siate i boia di questa figura incuba che insinua pensieri disdicevoli che la notte avete terrore possano scivolare per sbaglio nel sonno delle vostre compagne, questa Lilith, che vi muove ai sadismi. Siate con le mani grandi il Lupo Cattivo che ha vasti occhi e poco cervello e mentre si appresta a sbranare la Piccola Fiammiferaia cieca non si avvede del tranello, del camuffamento, non decifra, sotto il suo cappuccetto rosso, lo svettare marziale di milleottocento testate chimiche. Quando le farò esplodere contemporaneamente, sarà meno di un brillìo l’ultima memoria che seppellirete con voi. E l’ultima immagine che ricorderete, delle vostre precedenti vite, nell’ultima altrettanto inutile che vi imprigionerà per sempre, sarà la desolante sensazione di una privazione, di un buco che non avete mai colmato e che non potete più riempire, e non vi resterà, in eterno, che dibattervi nella cosciente ignoranza di quale misterioso oggetto avrebbe potuto colmarlo.

 

Provate a chiederlo a quell’ombra che adesca il nulla sul ciglio della strada, ogni notte, caracollando sbarazzina e minacciosa fra lo spigolo del marciapiede e l’asfalto, come un rimprovero, sotto le vostre finestre; provate a chiederle qual è il prezzo per conoscere la verità, che è a nolo, e forse scoprirete che saziarvi costa meno di quello che sareste disposti a spendere.

 

Ed ora, che il cielo senza luna e senza stelle e senza colore ci avvolge, e nella sua rischiosa protezione notturna ci asserragliamo, colpevoli e innocenti indistinguibili, quale segreto rimane ancora da sfogliare? Quale segreto magari illustrato, per chi non sa leggere? Quale passatempo si nasconde ostinato e si sottrae a voi nel fondo solo apparentemente chiaro del bicchiere vuoto?

 

Datemi il tempo e il modo di contare quanti sassolini riposano in questo vecchio barattolo, che conservo sul ripiano più alto di una memoria traditrice, troppo stipata di cose per contenerne di nuove. Ditemi, vi prego, vi scongiuro di raccontarmi come avete speso la più insignificante delle vostre ore, ricopritemi di noia come di diamanti, così che il mio cuore torni a battere lentamente, aiutatemi a lavare via tutta questa voglia smodata di tempesta e questa sete di diluvi e il bisogno di respirare bufere così implacabili da svellere le radici di ogni oggi.

 

Come ritrovare i minuti infiniti che infinitamente mi sono mancati, che ho gettato per la fretta di trovarne e consumarne di nuovi, che ho poi lasciato per cercarne ancora? Come fermarsi, come arrestare la mia corsa senza direzione, il saltellare frenetico verso frutti inarrivabili? Fermatevi allora voi, che tanto mi dovete, voi che potete e non volete, e ditemi che lo volete, per dimostrarmi che in fondo avete, per questo velo nero, signori!, per le spine che porto sotto i piedi, una goccia di bene da versare e un sospiro di attenzione.

 

Vi regalerò lo spettacolo ineffabile di una lacrima, se pure sarò capace di estrarne l’essenza da fiale sigillate da troppo tempo; vi donerò un lamento, che non sia un compianto, che non so più da quanto non ricordo il sapore. Vi offrirò, ve lo giuro, del tutto senza spesa, un dolore patito con abbandono, senza rancore, per provare a me stessa che sono buona, che c’è una via diversa per riposare nelle ore del riposo e lavorare nelle ore del lavoro, non come adesso, che sbaglio il fuso orario e ribalto cocciuta il quadrante dell’orologio.

 

Ora che ci nutriamo di profumi da poco, ditemi che le parole che versiamo non sono inutili, ditemi questa bestemmia, che in fondo, alla fine di ogni contratto, c’è una minuscola postilla, che mi permetterà di andare via, se mi sentissi barcollare in questo santuario, sia pure nel mezzo di questo scambio incessante, o se mi dimenticassi di colpo il sèguito della preghiera che sto recitando.

 

Ora che sono stanca, stanca davvero, ditemi che posso sognare qualsiasi cosa, che non sarà male, e non ci saranno condanne, ditemi che posso, signori, e lasciatemi andare, fino a domani sera.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

Post N° 1

Post n°1 pubblicato il 29 Novembre 2005 da angela_pier
Foto di angela_pier

poi scordai.

e mentre scordavo, la vita mi premiava.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
« Precedenti Successivi »

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963