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Post n°25 pubblicato il 12 Novembre 2013 da godloki
Baluardo e difensore della società divina, costantemente impegnato in duri combattimenti contro malvagi giganti, Thor è innanzitutto il dio più forte, quello maggiormente dotato di una potenza muscolare tutta terrestre. Probabilmente fu proprio questo suo carattere di forzuto protettore degli dèi e degli uomini e di strenuo avversario di esseri mostruosi afarlo identificare con Ercole nell'interpretatio romana di Tacito. Tuttavia l'ampio spettro dei suoi protettorati simbolici e l'eccezionale diffusione del suo culto portarono a tradurre il nome del giorno a lui consacrato nell'antica settimana nordica come dies Jovis, attribuendogli, così, la stessa importanza e funzione del Giove romano. Un fragoroso boato, preceduto da accecanti scintille, preannunciava il passaggio del carro dei possente signore del tuono e delle saette, il primogenito di Odino e Jördh: il rosso Thor. Maestosamente assiso sul cocchio, il dio frusta con veemenza i suoi due capri, Tanngnjostr, "che fa scricchiolare i denti", e Tanngrisnir, "che fa stridere i denti". I due splendidi esemplari, non ancora privi della loro anima selvaggia, erano i simbolici arrecatori di perturbazioni temporalesche, sinistramente annunciate dal rumore delle loro mandibole in continuo movimento. Una fluente barba d'un rosso cupo ed una lunga chioma rossiccia incorniciavano il volto eternamente corrucciato dei dio. I suoi occhi, seminascosti dalle spesse e prorninenti sopracciglia fuive, avevano lo stesso intenso colore della brace ardente. I bicipiti possenti, particolari di una muscolosa e colossale corporatura, completavano il ritratto delle umanissime sembianze di Thor. L'armamentario magico del dio comprendeva una portentosa cintura capace di raddoppiare all'occorrenza la sua già eccezionale potenza muscolare. Le sue mani nodose, avvolte in magici guanti di ferro, stringevano il corto manico del martello Mjölnir, "maciullatore", onnifrantumante arma, inestimabile strumento d'offesa contro malefici mostri e giganti. Una volta lanciato in aria e frantumato il suo bersaglio, lo straordinario martello ritorna nelle mani di Thor come un insolito, ma ben più devastante, boomerang. Mjölnir, nella sua qualità di arma celeste, è anche un simbolo del fulmine, necessario preliminare luminoso ai tuoni ed alle precipitazioni atmosferiche. Ecco perché il rosso gigante era tanto venerato dai contadini, che vedevano in lui il signore delle piogge, importante elemento per il conseguimento di un buon raccolto. E, a mo' di pendagli appesi a rozze catenine, piccoli martelli ornavano i colli dei figli dei contadini per proteggerli dalle potenze maligne. Del resto, per rimanere nella sfera agraria, Thor aveva sposato Sif, la dea della fertilità dai capelli dorati come le spighe mature, immagine risplendente dell'abbondanza delle messi. Con la sua sposa Thor divide i possedinienti di Thrudvangar, "sentieri della potenza", dove abita nell'immenso palazzo Bilskirnir, "risplendente", uno dei più grandi di Asgardh, con le sue 540 sale riccamente arredate. Un dio così esuberante, incarnazione dell'energia vitale, non poteva certo accontentarsi di una sola donna, seppur bellissima: si conoscono numerosi suoi amori con comuni mortali e con gigantesse. Ma un solo incontro fu importante per Thor: quello con la gigantessa Jarnsaxa. Dall'unione con la donna appartenente alla razza dei suoi nemici per eccellenza Thor ebbe due figli: Modhi, "coraggio selvaggio", e Magni, "potenza colossale", ed una figlia, Thrudhr, "forza". E quando, alla fine dei tempi, Thor cadrà vittima delle esalazioni asfissianti del Serpe del mondo, saranno i suoi figli Modhi e Magni a prendere in consegna il mitico martello, portandolo nella nuova cittadella divina, consci che la pace e la prosperità vanno difese con la forza.
Post n°24 pubblicato il 11 Novembre 2013 da godloki
Dio dagli innumerevoli appellativi, ognuno dei quali richiama una sua impresa o caratteristica, Odino è, in primo luogo, il padre degli dèi e degli uomini. L'etimologia del suo nome rimanda ad una ben definita connotazione caratteriale: Odino, sia nella forma norrena Voden che nell'antico alto tedesco Wuotan ed in quello basso Wodan, come pure nell'antico inglese Woden, significa «furore». Significato conservatosi, del resto, nel tedesco moderno Wut (rabbia, furia). La sfera d'azione simbolica dei dio non si esaurisce in quest'unica direzione, ma abbraccia molti ambiti dell'agire umano, assumendo, di volta in volta, i caratteri del dio padre, psicopompo, ispiratore dei poeti oppure depositario di una saggezza misterica. Tremende urla selvagge rintronavano da lontano, giungendo alle orecchie dei soldati terrorizzati ed intimoriti: esse annunciavano, con la loro bestialità, l'arrivo di indomite schiere di feroci guerrieri assetati di sangue come dei lupi discesi dalle montagne innevate. I soldati, ormai intontiti ed accecati dalla paura, sapevano che si sarebbero trovati di fronte ad esseri metà uomini e metà bestie feroci che, sprezzanti dei pericolo ed incuranti delle ferite, si precipitavano in battaglia senza armatura, mordendo i loro scudi come degli assatanati, uccidendo chiunque si parasse loro innanzi. Questi oscuri dispensatori di morte e di distruzione erano forti come orsi o tori selvaggi e né fuoco né ferro avevano effetto su di loro. Indossavano solo pelli d'orso o di lupo, che contribuivano ad accentuare il loro aspetto di sinistri ambasciatori del male. Gli animaleschi guerrieri, personificazioni della furia annientatrice, erano i mitici berserkir "quelli vestiti di pelli d'orso", e gli ulfhednir, "quelli vestiti con pelli di lupo". Appartenevano ad alcune società cultuali dedicate ad Odino, nella sua valenza di dio della guerra. I membri di queste società, vere e proprie sette, si sottoponevano a crudeli riti di iniziazione, ingurgitando, a quanto sembra, anche sostanze ìnebrianti e facendo uso di droghe capaci di renderli insensibili al dolore fisico. Ed è in tali sostanze stupefacenti che va forse ricercata la fonte dell'eccezionale carica distruttiva che caratterizzava il loro delirio bellico il furor bersercicus, come è stato definito. Ma le armi che Sigfodhr, "padre della vittoria", uno degli appellativi di Odino, usava per favorire i suoi protetti non erano certo onorevoli: con dei sortilegi imbrigliava le armi del nemico immobilizzandole nelle loro mani, rendendo vano ogni tentativo di valorosa difesa. Oppure accadeva che, all'improvviso, i guerrieri fossero accecati e, non scorgendo nemmeno il nemico, perissero miseramente trafitti dalle lance dei "raccomandati" di Odino. A questo aspetto del dio allude molto chiaramente un altro suo appellativo: Herblindi, l'«accecatore dei guerrieri». Del resto, in simili casi, c'è sempre l'altro aspetto, quello di chi gode, e si ringraziava Hertier, il «rallegratore dell'esercito», quando si usciva vittoriosi da una battaglia. Ma Odino era estremamente capriccioso, pronto a ritirare il suo appoggio da un momento all'altro senza un motivo apparente, funestando i suoi protetti con dispetti mortali. Ma lo spirito di Odino aleggiava soprattutto dopo la battaglia, quando le sue emissarie femminili, le Valchirie, montando cavalcature alate, scendevano sui rutilanti terreni di scontro e prelevavano i corpi dei valorosi che ineritavano l'ingresso alla Valhalla, il paradiso dei prodi. Ecco perché Odino è chiamato Valfódhr, "padre degli uccisi", poiché colui che muore coraggiosamente in battaglia, il val, diventa suo figlio adottivo. Tale suo carattere di divinità psicopompa è alla base della sua identificazione con Mercurio nell'interpretatio romana di Tacito. Identificazione che vediamo agire anche nella traduzione nordica del dies Mercurii (il nostro Mercoledì) reso da alcuni popoli nordici come "giorno di Woden" (si veda anche l'inglese moderno Wednesday). Nelle vene del dio padre di tutti gli dèi scorreva anche il sangue non certo divino dei giganti. Odino infatti nacque, all'inizio dei tempi, dalla gigantessa Bestla, sposa di Bor, figlio dei primordiale essere androgino Buri, plasmato dalla lingua della vacca Adhumula nel ghiaccio salato che avvolgeva il cosmo. In quei tempi oscuri Odino aveva anche due fratelli, Vili e Vé, suoi complici nell'uccisione di Ymir, il macroantropo che, con il suo colossale cadavere, fornì la materia prima per la creazione dell'universo. Odino in seguito, bramoso di potere, si macchiò dell'orrendo crimine di fratricidio, eliminando cruentemente gli ormai scomodi fratelli e divenne il signore assoluto di Asgardh. Sua sposa è Frigg, dea della fecondità e della fertilità, con la quale generò tutti gli altri dèi tranne Thor, primogenito nato da un suo lungo flirt con Jørdh, la "madre terra". Dimora di Odino in Asgardh è Valaskyalf, "scoglio degli uccisi", dove, assiso sul trono Hlindskyalf, scorge tutto ciò che accade nel mondo. Complessa figura mitica, stratificazione di vari ed opposti valori simbolici, Odino è anche il dio della saggezza. Si racconta che il dio per bere alla Fonte di Mimir, la portentosa sorgente di ogni sapere posta nei pressi di una delle radici di Yggrdrasil, abbia dato in pegno un suo occhio all'oscuro guardiano della fonte. L'occhio divino giace da allora nelle acque gelide della sorgente, doloroso prezzo pagato per acquisire una vista più preziosa: lo sguardo del saggio che sa scorgere dietro le apparenze l'essenza delle cose. L'amore per la sapienza e l'ansia di comprendere i più reconditi misteri spinsero Odino a sottoporsi ad un altro cruento rituale. Il padre degli dèi si impicca, "sacrificandomi a me stesso", come dice, ad un ramo dell'albero del mondo, il frassino Yggrdrasil. Per nove giorni e nove notti il dio penzola privo di conoscenza appeso al sacro arbusto. ma non è soddisfatto. Con una lancia si infligge una ulteriore tortura, colpendosi e ferendosi duramente. È la cosiddetta "ferita di Odino", il segno inciso nella viva carne a testimoniare l'appartenenza al dio, ferita che molti guerrieri si procuravano nel tentativo di ingraziarselo. La mente del dio, mentre il suo corpo emaciato pativa immani sofferenze, era libera di vagare alla ricerca di nuovi orizzonti, eliminando le anguste frontiere del già noto. In questo viaggio, simile per molti aspetti a quelli sciamanici ed a quelli più profani indotti dalle droghe pesanti, Odino vide le rune, le iscrizioni dotate di particolari poteri magico-divinatori, e se ne appropriò, raccogliendole da terra. A tale episodio si ricollegano appellativi come "dio degli impiccati"ed una serie di testimonianze che sembrerebbero provare l'esistenza di sacrifici umani tributatigli durante misteriose cerimonie. Molto spesso una noia tremenda assaliva Odino, rendendogli irrespirabile la divina aria di Asgardh, facendogli desiderare il contatto con i comuni mortali. Allora si divertiva a girovagare sotto false spoglie per il mondo, stupendo o terrorizzando chi lo incontrava. E sebbene fosse il più importante degli dèi, usava travestirsi da vecchio, indossando un abito che aveva conosciuto tempi migliori, tutto sdrucito e senza una manica. Vafudhr, il "vagabondo", uno degli appellativi assunti da Odino in tali peregrinazioni terrene, si avvolgeva, per proteggersi dal freddo, in un ampio mantello turchino e si appoggiava ad un nodoso bastone con la punta di ferro: nessuno avrebbe mai potuto immaginare che quel vecchio orbo, con una lunga barba grigia incolta, con il viso seminascosto da un cappello floscio a larghe tese fosse il dio invocato dai guerrieri, il signore di tutti gli dèi. In altre occasioni, quando si richiedeva la sua presenza "ufficiale", ad esempio, nelle sacre riunioni ai piedi del frassino Yggrdrasil, Odino sapeva sfoggiare tutti gli attributi conferitigli dal suo rango e valore. Allora cavalcava il magnifico destriero Sleipnir, "che sdrucciola", uno stallone grigio con otto zampe, dotato della straordinaria facoltà di galoppare sia sulla terra che in cielo, sfrecciando più veloce del vento. L'eccezionale animale era il frutto della singolare unione dell'astutissimo dio Loki, abilissimo nelle metamorfosi animali, con il portentoso stallone Svadhilfari. Sulle spalle di Odino sono appollaiati due superbi corvi: Hugin, "pensiero"e Munin, "memoria". Ogni giorno, alle prime luci dell'alba, i neri volatili si alzano in volo raggiungendo le più remote regioni della terra e al loro ritorno, all'imbrunire, riferiscono al loro padrone tutto ciò che hanno visto e sentito. Grazie ai due pennuti ricognitori il dio è costantemente informato degli avvenimenti mondani. Ai fianchi dei dio supremo degli Asi, preannunciati dai loro tremendi ululati, avanzano minacciosi, con le enormi fauci spalancate, Geri, "ghiottone", e Freki, "vorace", due famelici lupi che simbolizzano la furia battagliera degli ulfhednir. Odino brandisce una splendida spada, la famosa Gungnir, forgiata dai nani Brokk e Sindri. Implacabile strumento di morte, l'arma divina, una volta scagliata nel mezzo di una battaglia, continuava da sola a colpire all'infinito, dispensando orrende menomazioni agli sfortunati nemici dei dio. Gli abilissimi nani artigiani e fabbri, creatori della magica spada, donarono al dio anche l'aureo anello Draupnir, "che gocciola", fornito della stupefacente proprietà di autoriprodursi ogni nove notti in otto esemplari di identico peso e bellezza. L'inestimabile gioiello, fonte di infinite ricchezze, sarà posto, come aureo viatico per il triste viaggio nell'aldilà, sulla pira funebre del bellissimo Balder, lo sfortunato figliolo di Odino ucciso dalla malvagità e dall'invidia di Loki. Sembra che Odino custodisse gelosamente una macabra reliquia, testimonianza del suo amore paterno: la testa di Mimir, il dio che insieme ad Hoenir fu inviato tra i Vani come pegno di pace dopo la lunga guerra tra le due famiglie divine. I Vani erano soliti chiedere consigli al saggio Hoenir, ma questi accettava di rispondere ai loro quesiti solo se poteva consultarsi con Mimir, irritando non poco i signori di Vanaheim. Un giorno, stufi di attendere sempre l'arrivo del dio, lo decapitarono, eliminando cosi i contrattempi che imponeva ai loro consulti con Hoenir. Odino, padre degli dèi e quindi anche di Mimir, si precipitò nel regno dei Vani e, colmo di disprezzo e di dolore, si fece consegnare il capo crudelmente reciso. Ritornato ad Asgardh, il dio cosparse di erbe magiche la testa e, recitando delle litanie a lui solo note, riusci a non farla imputridire. Da allora, nei momenti di necessità, Odino conversa con la testa mummificata, intonando cantilene magiche e chiedendole consigli sulla condotta da tenere. Ed è proprio con la testa di Mimir che Odino si consulterà quando, avvicinandosi ormai la fine dei tempi, guiderà gli dèi ed i suoi guerrieri contro le schiere demoniache. Ma a nulla gli serviranno i suggerimenti del decollato: nonostante le sue arti magiche e la sua sapienza misterica il padre degli dèi perirà, inghiottito nelle possenti fauci del lupo Fenrir.
Post n°23 pubblicato il 10 Dicembre 2012 da godloki
Talvolta semplici nomen, presenze divine scarsamente documentate, inserite in contesti mitico-rituali di cui ci sono ignote le caratteristiche, gli dèi cosiddetti «minori» emergono numerosi nel pantheon nordico. Oggetto di copiosi studi, frutto delle dotte speculazioni di archeologi, storici delle religioni e specialisti delle culture nordiche, essi hanno conservato, a tutt'oggi, il mistero che li circondava nei miti in cui appaiono. Figure evanescenti che popolavano i racconti tradizionali, l'impalcatura orale della religione dei nordici, gli «dèi senza storie», le divinità delle quali si mormoravano solo il nome e qualche attributo, avevano certamente una loro precisa funzione nell'architettura polivalente di Asgardh. Di alcuni di loro, a dire il vero, si conosceva il motivo della scarsa popolarità, dell'oscuro silenzio in cui erano immersi. Come esempio tipico di tale congiura del silenzio, gli antichi nordici citavano Hödhr, il figlio cieco di Odino, inconsapevole fratricida, assassino del luminoso Balder. Infatti erano stati gli dèi stessi a decretare che non si parlasse di lui, tanto grave era stata la sua colpa; e naturalmente gli uomini devoti si astenevano anche dal nominarlo. Ben più arcani misteri si celavano però negli attributi di divinità come Hoenir, ad esempio. 1 Fuggevole comparsa nel racconto della creazione dei primi esseri umani, allora compagno o fratello di Odino, egli infuse l'anima in tronchi d'albero, trasformandoli in creature viventi. Eppure, oltre a questa sua impresa primordiale, non si conoscono altre sue avventure: solo degli strani nomi che, basandosi su una tradizione millenaria, ma ormai svanita nel nulla, gli venivano attribuiti. Così i poeti lo chiamarono Langifort, «gambalunga» o, davvero incomprensibilmente, Aurukonnungr, «re del fango»: per molto tempo le menti migliori tentarono affannosamente di indicare un possibile significato, ma i disegni divini rimasero impenetrabili. Altrettanto enigmatici sono i contorni di una figura come Lodhurr, anch'egii protagonista del mito della nascita dei primi uomini. Tutti conoscevano il ruolo svolto da Lodhurr in quell'occasione: aveva fornito il calore, il benefico tepore che sostenta il corpo umano, ai freddi tronchi trovati sulla spiaggia. E proprio ricordando questo episodio si riteneva che fosse il patrono del fuoco nella sua dimensione benefica e non distruttrice: forse la radice di tale accostamento risiedeva nel suo nome (secondo un probabile accostamento con lodern, «ardere»). Di altri dèi si conoscevano maggiori particolari, tuttavia essi sfuggivano ad ogni precisa catalogazione, quasi a voler lasciare un'ampia zona d'ombra tra sé e gli uomini. Ad esempio, tutti conoscevano le qualità di Bragi, il dio dalla barba fluente, abile conversatone ed allietatore con i suoi racconti delle serate divine. Quasi a voler usurpare il «dono di Odino», era spesso invocato dai poeti che vedevano in lui il loro patrono. Non per niente i cantori di storie meravigliose, piene di fantastici avvenimenti svoltisi nella notte dei tempi, erano chiamati «uomini di Bragi». Anche la sposa del «dio barbuto», altro appellativo di Bragi, era ben conosciuta: si trattava della solerte custode dei pomi dell'eterna giovinezza, l'ingenua vittima dell'astuzia di Loki, la bella ldhunn. Ma, nella pur movimentata vita che si conduceva ad Asgardh, Bragi non visse avventure in prima persona, ma restò a far da comparsa in tante storie di altre divinità. Invocato nei duelli, valentissirno arciere e sciatore, figliastro di Thor e figlio di Sif, anche Ullr apparteneva alla schiera degli dèi «famosi ma sconosciuti». Essi sono i signori indiscussi delle loro arti, divinità notissime per i loro patronati, protagonisti di storie delle quali si sono perse le trame. Il destino di Ullr è simile a quello di Forseti, figlio di Balder e di Nanna. Da tutti conosciuto per la sua abilità nel risolvere le controversie, egli era perciò chiamato il «pacificatore». Viveva in una ricca dimora con colonne d'oro fulgido e tetto d'argento lucente, ma, come sembrano provare queste scarne informazioni, non visse l'epica ridondante e fantastica degli abitanti di Asgardh: quasi che la morte prematura dei padre lo avesse esiliato in un'aurea prigione, lontano dagli accadimenti divini. Non mancano, in tale elenco degli oblii, delle presenze macabre: dèi che, malgrado il loro eroico comportamento, non riuscirono ad avere un posto di primo piano nel pantheon nordico. Mimir, dio di quella particolare forma di saggezza imparentata con la memoria, è un tipico esponente di questa classe di dèi sacrificatisi invano. All'epoca della contesa con i Vani, egli fu consegnato insieme a Hoenir ai nemici degli Asi i quali, per stizza e stanchi di dipendere dalle sue sentenze, gli mozzarono il capo. Ed anche se Odino, con erbe e canti magici, riuscì a tenere in vita la testa di Mimir, egli non riuscì mai a farsi una «fama», miti e riti, degna della sua immolazione: rimase una figura di secondo piano. Nonostante che fossero figli di Odino e che, nello scontro decisivo contro i maligni abitanti di Muspellheim, ricoprissero un ruolo di primaria importanza, Vidharr e Ali o Vali (addirittura non si conosce il suo nome preciso!) rimasero prigionieri dell'alone di mistero che li circondava. Vidharr apparirà, quasi come un inviato di una potenza superiore agli dèi stessi, nell'estrema battaglia contro le forze del male ed abbatterà con una sua portentosa scarpa dalle dimensioni gigantesche il lupo Fenrir, la bestia che assassinò il padre. L'altro misterioso figlio di Odino ucciderà, nella stessa occasione, il cieco Hödhr, macchiandosi cosi di fratricidio. Ma oltre a queste imprese, di diverso valore e significato, i due fratelli non compaiono in nessun altro racconto e cosi ripiombano, insieme agli altri «dèi senza storie», nelle nebbie delle supposizioni dei commentatori.
Post n°22 pubblicato il 09 Dicembre 2012 da godloki
Figura divina di ardua classificazione, fonte di numerose e contrastanti interpretazioni, Heimdalir occupa un posto di rilievo nel pantheon nordico, svolgendo, nei miti, il ruolo di guardiano di Bifrost, la «tremula via» che conduce alla cittadella divina. Le molteplici, ma confuse, allusioni disseminate in testi arcaicifanno pensare, tuttavia, ad un ben più ampio spettro di domini simbolici a lui collegati, di cui, però, mancano i necessari referenti mitico-rituali per una loro precisa identificazione. Ai limiti estremi del cielo, laddove l'occhio umano non riesce più a distinguere i confini delle cose, irretito dai bagliori di una luce bianchissima, si stagliava Himinbjorg, «monte del cielo», la dimora di Heimdafir, il «dio bianco», come lo chiamarono i poeti nordici. Immerso nella purezza di quell'atmosfera incontaminata, lontano dai clamori e dalle beghe umane, il dio sedeva beato, bevendo enormi coppe di idromele e carezzando Gulltoppr, il suo fantastico destriero dalla criniera fatta di sfavillanti boccoli d'oro fino. L'aureo metallo era profuso in abbondanza anche nella bocca del dio, donandogli un sorriso abbagliante e l'appellativo di Gullintanni, «denti d'oro», con cui era conosciuto in tutta Asgardh. Dal suo palazzo celeste HeimdaUr sorvegliava il «sentiero tremolante», il ponte Bifrost, l'arco multicolore teso tra il cielo e la terra che i comuni mortali scorgono solo dopo le tempeste e che era l'unica via d'accesso ai territori divini. Sentinella instancabile, Heimdalir vigila con solerzia impareggiabile, giorno e notte, dormendo pochissimo, simile ad un uccello pronto a destarsi al minimo rumore sospetto. E, come ausilio indispensabile per l'importante compito affidatogli, il «dio bianco» aveva un udito sensibilissimo: poteva sentire l'erba crescere nei prati o la lana che ingrossava quotidianamente il vello delle pecore. A tal proposito, si narrava che egli avesse ricevuto questo portentoso udito rinunciando ad una delle sue orecchie, recidendola e seppellendola sotto il sacro frassino che attraversa l'universo. Simile ad Odino che, per avere una vista più profonda, che gli consentisse cioè di vedere l'essenza delle cose, divenne orbo, Heimdallr aveva perciò un solo orecchio, indice di una rinuncia alla normalità, indispensabile sacrificio per acquisire un senso soprannaturale. Nelle mani di Heimdaìlr si trovava Giallarhorn, «corno risuonante», strumento di straordinaria potenza, il cui suono, grazie anche ai capaci polmoni del dio, raggiungeva i più sperduti angoli del mondo, annunziando la profanazione di Bifróst e chiamando a raccolta gli dèi. Ma, unendo l'utile al dilettevole, il corno era anche un magnifico calice da cui il dio sorseggiava la fresca mistura divina, il nobile idromele. Misteriose storie aleggiavano intorno a Heimdalìr, frammenti cifrati di labirinti che gli antichi nordici sapevano percorrere, ma di cui si sono perse le chiavi. Alcuni raccontavano, ad esempio, che il «custode di Asgardh» venne ucciso da una testa umana usata come macabro proiettile. E, unici a sapere sondare gli enigmi divini, i poeti parlavano di «spada di Heimdallr» quando volevano indicare, nel loro linguaggio ispirato, il cranio umano. Forse intendevano rammentare tristi episodi della ferocia delle primeorde guerriere nordiche, quando, a quanto si dice, il cervello dei nemici veniva estratto dai loro crani e impastato con della calce: se ne facevano ributtanti proiettili dotati di un potere magico sconfinato, capace di annientare qualsiasi eroico combattente.Dal resto, sempre nelle pieghe di versi criptici, si diceva che Heimdallr era un valente guerriero, intrepido sfidante dell'astuto signore degli inganni, il malvagio Loki. I due, in un tempo remotissimo, si affrontarono in uno strano duello, immersi nelle acque limacciose di un fiume, assumendo per l'occasione l'aspetto di foche. L'oggetto del loro contendere sembra essere stata la collana di Freya, da sempre fonte di invidie e di conflitti. Ma il mistero più insondabile, fonte di interminabili dispute, è celato nelle parole che il dio stesso pronunziò a proposito della sua nascita. In uno dei suoi canti magici, messaggi cifrati consegnati all'umanità incredula, Heimdallr diceva: «lo sono nato da nove madri Io sono nato da nove sorelle». Tramandati di generazione in generazione, si conoscono anche i nomi delle madri-sorelle, «tutte figlie di giganti», come è detto nello stesso carme. Tentando di svelare i segreti celati nell'enigmatico distico, alcuni coìnmentatori pensano che Heimdallr, oltre a salvaguardare Bifrost, fosse il nume tutelare del frassino dei mondo, il pilastro vegetale che attraversava i nove mondi dell'universo nordico. E, richiamandosi ad antiche tradizioni, pensano che le madri-sorelle simboleggino i nove settori in cui era frammentato il cosmo: il «dio bianco», quindi, sarebbe stato il custode dell'ordine cosmico e divino allo stesso tempo, vigilando sulla solidità dei suoi assi principali, tenendo lontani i foschi rappresentanti delle forze del male. Forse proprio per prepararlo a questo duplice compito le sue madri lo sottoposero, appena nato, a particolari cerimonie, dei rituali iniziatici carichi di simbolisini intricati ed oscuri, fornendogli così una corazza fatta di incantesimi, fragile a prima vista, ma efficacissima contro qualsiasi malia diretta contro di lui. li pargolo divino fu cosparso di terra, di gelide gocce provenienti dai mari ghiacciati dell'estremo nord e, per infondergli coraggio e forza, di sangue di porco selvatico coiisacrato: fu questo, in sintesi, il singolare «battesimo» di HeimdOr. Le doti del dio si manifestarono in tutta la loro grandezza alla fine dei teinpi, quando il suo corno risuonò, grave e penetrante, in tutto il cosmo, chiamando allo scontro finale le forze del bene contro quelle del male. In quella occasione egli dovette assistere al crollo di Bifröst, squarciato dalle orde furiose dei distruttori dell'universo, ma, impavidamente, continuò a soffiare nel corno, fornendo la colonna sonora di quell'ultimo spettacolo di morte. Rinnovando la loro antica sfida acquatica, si batté in duello con Loki e, senza mai abbandonare il suo Giallarhorn, pose fine alla vita del suo nemico. Ma subito dopo, ferito a morte, stramazzò al suolo. Heimdallr ebbe ancora il fiato sufficiente per suscitare altre brevi ma possenti note e poi mori, testimone e protagonista dell'inizio della consumazione finale dell'universo.
Post n°21 pubblicato il 06 Dicembre 2012 da godloki
Signora dei Vani, Freya simboleggia diversi aspetti del femminile, includendo, ad esempio, la sfera dei poteri magici e della sessualità sfrenata. Tuttavia particolari vicende mitiche la presentano come una madre ed una sposa teneramente legata ai suoi doveri muliebri, tanto che alcuni studiosi, anche sulla base di altri particolari, vedono in lei un altro nomen della sposa di Odino. Nata dall'incestuosa unione di Njdrdhr con la sorella, Freya era innanzitutto la Vanadis, la «dea dei Vani» per eccellenza, l'unica presenza femminile della famiglia andata a vivere, agli inizi dei tempi, tra gli Asi. Affascinante visione di grazia ed avvenenza, la signora dei Vani nascondeva sotto i suoi tratti perfetti una innata malizia. E, forse esagerando, si raccontavano sapide storielle sulle sue avventure galanti, disinibite escursioni nel regno della voluttà. Gli antichi, a tal proposito, amavano ripetere, per sigillare in un distico la lascivia e la gioiosa intemperanza della dea, le parole rivoltele da Hundìa, una megera vissuta, non si sa come, tra gli dèi: «Tu corri nelle notti... come la capra coi capri vagabondi ... ». Anche Loki, dando libero sfogo al suo sarcasmo, l'aveva duramente accusata di essere una ninfomane, pronta a soddisfare le voglie del basso ventre con chiunque, fosse un Aso o un Elfo. Del resto, sebbene fosse del tutto lecito tra i Vani, la si accusava di essersi unita in un coito incestuoso con il fratello Freyr. L'estrema dissolutezza di Freya, la sua irrefrenabile energia sessuale, erano cantati dai poeti riella Mangsongr, la poesia amorosa che era severamente proibita, ma che, dando voce alle istintualità elementari, fioriva nel segreto di alcove, agendo come un afrodisiaco in versi. E proprio in una di tali poesie si narrava come Freya avesse ottenuto Hildsvini, «cinghiale da battaglia», magnifico esemplare dalle setole auree, rilucenti come quelle del cinghiale di Freyr. Ebbene, si diceva che la dea aveva donato le sue grazie femminili ai due nani Dain e Nabbi, trascorrendo con loro una infuocata notte di passione: "'alba, come segno d'affettuosa dedizione, ebbe il prezioso animale. Un'altra volta poi, per esplorare regioni del piacere sconosciute, aveva trasformato, con incantesimi a lei sola noti, un suo amante umano in un feroce ma ben dotato cinghiale: quel coito all'insegna della ferinità le aveva procurato sensazioni e ferite indimenticabili! Il collo di Freya era ornato da Brisingamen, la «collana dei Brisinghi», gioiello noto per la sua incomparabile bellezza in tutta Asgardh. Anche sulla provenienza di tale monile circolavano storie maliziose, dove si insinuava che la dea avesse utilizzato la sua ars amatoria per sedurre un popolo intero di nani (i Brisinghi, per l'appunto), per poter avere l'inestimabile collana. Quando si recava al sacro concilio nella piazza principale di Asgardh, la dea montava su un cocchio
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Inviato da: godloki
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