Nel Tibet dei primi
decenni del Novecento, un luogo insieme fiabesco e lontano da ogni stereotipo,
dove bellezza e violenza sono inseparabili e le accecanti distese rosso fuoco
dei campi di papaveri rimandano alla tragica diffusione dell’oppio, si snoda la
saga della dinastia Maichi. Potenti signori feudali dal potere illimitato, i
membri del clan si muovono tra rivalità familiari e lotte di potere, amori e
sconfitte, in un intrecciarsi di eventi dove le personalità dei molti protagonisti,
primitive e ricche di fascino, emergono con grande evidenza narrativa. A
raccontare è la voce di un membro dell’ultima generazione, un giovane idiota
che vive la propria limitatezza come occasione di libertà, e sa osservare cose
e persone con uno sguardo che, da ingenuo, si rivela straordinariamente acuto.
Attraverso gli occhi di questo idiota sapiente catastrofi naturali e
vicissitudini politiche, tradizioni e superstizioni, crudeltà e follie
raggiungono una risonanza simbolica, e la struttura del romanzo di formazione
acquista nuova profondità nel dipingere non solo la storia di un uomo e di una
famiglia, ma quella di un paese, e di un universo culturale. Un Tibet rivestito
dei colori del mito, dunque, ma lontano da ogni facile mitizzazione, che Alai,
autore di etnia tibetana che ha scelto di parlare del suo paese in lingua
cinese, ha proposto con ricchezza stilistica e forza evocativa tali da rendere
il romanzo un caso letterario e insieme politico. Salutato dalla critica cinese
come uno dei capolavori della contemporaneità, titolare in patria di grande
attenzione da parte del pubblico e subito tradotto con successo negli Stati
Uniti, Rossi fiori del Tibet si candida a rappresentare, accanto alla
Cina del premio Nobel Gao Xingjian, un aspetto, ancora poco noto ma non meno
affascinante, dell’immenso continente orientale.