loredanafina

DAL LIBRO: "DICERIA DELL'UNTORE" di Gesualdo Bufalino - Sellerio Ed. - Le frasi e le pagine più interessanti. 2^ PUBB.


SECONDA PUBBLICAZIONE_____________________________ Mariano Grifeo Cardona di Canicarao: così, senza economizzare una sillaba, usava firmarsi il dottore, prolungando il primo nel successivo cognome, non tanto forse per diritto di nascita, bensì fedele a quel pregiudizio mediterraneo (o quantomeno suo e mio), secondo cui l'interiezione e la pletora aggiungono alle parole - e ai climi, alle mimiche, ai cibi - non solo opulenza ma credito, come in un abbigliamento magico, dove maschere e piume, più ridondano, meglio si esaltano e si danno forza a vicenda.Nessuno di tanti titoli gli era poi utile a nulla, per una furberia delle cose, essendo che, a memoria d'uomo, lo avevano sempre chiamato il Gran Magro, nè v'era portantino o suora o malato che, scorgendone le lunghissime gambe sopravvenire per la corsia, non sentisse il bisogno di propagare l'avvenimento con un bisbiglio, il Gran Magro, il Gran Magro, la cui musica sempre uguale doveva certo, in tanti anni, essere arrivata almeno una volta sino alla conca pelosa del suo orecchio. Che poi un'impresa gentilizia - un nido d'api, col vocabolo Uberius al centro - pompeggiasse in cima al suo biglietto da visita, nessuno di noi smise mai di considerarlo un abuso, a dispetto delle commendatizie che si affannava a fornirgli la quercia dipinta, dalle radici come murene, appesa in alto dietro al suo scrittoio. Singolare pianta, davvero! Non protetta da vetro, ma da giustapposte lastre d'archivio, preventivamente nettate con acqua tiepida dalle macule e magagne di qualche ignoto defunto; e si levava dal suolo con tale energia e abbondanza di chiome da far temere che presto sarebbe evasa dall'effratta cornice per espandere liberamente i suoi cartigli nell'aria. Uno de quali in effetti, ove l'avessimo preso per buono, testimoniava dall'estremità di una fronda che una goccia almeno di blu, spremuta da marchionali ispanici lombi, era scorsa fino a lui lungo i secoli, per deporgli nelle vene un lampeggio d'antica grandigia, seppure ormai malinconica e torva, come s'addice a un uomo di libri.Bene, il falso o vero nobiluomo Gran Magro era il solo fra i medici della Rocca, all'infuori di quell'altro a cui toccava il turno di guardia, che restasse a dormire ogni notte con noi (dalla moglie s'era diviso anni prima: una siracusana di spaventosa bellezza, sulla cui foto sputava, dicevano, tutte le mattine, prima di lavarsi). Spesso, dopo cena, quando fummo diventati amici, me lo vedevo apparire al capezzale, senza camice, in piedi, chiuse sul pomo del bastone due mani di perfida esiguità. Alzavo gli occhi, ne investigavo da capo a fondo l'immagine, dalle spesse lenti verdacee ai borzacchini di capretto nero che gli coprivano quasi gli stinchi. Un vero e proprio dagherrotipo d'epoca: Herr Virchow fra colleghi e studenti nel giubileo della prima lezione; Monsieur Charcot in posa, sulla soglia della Salpetrière, con le fedine spettinate dal vento...Mi chiedo tuttora cosa cercasse nella mia compagnia, se gli servisse solo un ascoltatore acquiscente per le sue empiaggini d'ogni sera, oppure obbedisse alla professionale curiosità di censire da vicino i progressi del male dentro di me, le crepe neonate, i capisaldi persi, ripresi, ripersi; e tutto questo non su una di quelle gocciolanti pellicole che detestava, bensì attraverso più sottili spionaggi: una veemenza nella tosse che prima non c'era; una nota che la voce avesse improvvisamente fallito o riacciuffato a fatica sull'orlo; un'unghia spaccata, una roseola sul labbro, un lampo di febbre nell'iride. A meno che non venisse per bere, bere gli piaceva, gli dava la parlantina. E dunque io mi levavo dal letto, cavavo dall'armadio di ferro una bottiglia di porto e la mia caraffa privata (lui, a scanso di contagi, il suo bicchiere da tasca da una tasca della vestaglia, guardandomi di sbieco e scusandosi della percauzione con una sfacciataggine delle labbra). Uscivamo a bere sulla veranda, io anima, lui condottiero e arcidiavolo, fra sedie a sdraio nere di corpi distesi e sussurranti, dinanzi alla pineta che non stormiva, quasi, e nascondeva la lama di mare, laggiù.Che giorni, che serate. Forse i soli giorni ricchi di un'esperienza che non ha avuto altre iperboli, dopo, e s'è fatta inaspettatamente interminabile. Mentre allora, a furia di contare e ricontare i miei spiccioli anni come scampoli di meccano o catturati pedoni disposti ai lati di una scacchiera, m'ero abituato a vedere nel tempo a venire nient'altro che l'imminentissimo explicit d'una partita già perduta dentro la mente; non poema di cavalieri dove si celassero mirabilie e salvataggi sino alla penultima pagina; ma sonetto veloce a cui mancava solo un verso, il sigillo di una rima che non era consentito cambiare.__________________________________________PROSSIMA PUBBLICAZIONE AL PIU' PRESTO.